INDICE
Insegnamento 1: La morte di Cleopatra
Insegnamento 2: Ammonio Saccas ed il Neoplatonismo
Insegnamento 3: Il Misticismo Estatico del Mondo Antico
Insegnamento 4: Isidoro di Siviglia ed i Suoi Parenti
Insegnamento 5: Il Rinascimento Aristotelico di Avicenna e Averroè
Insegnamento 6: L'Aristotelismo di Maimonide
Insegnamento 7: Innocenzo III
Insegnamento 8: Ermanno di Salza e l'Ordine Teutonica
Insegnamento 9: La Poesia Mistica di Jacopone da Todi
Insegnamento 10: Giovanni Pico della Mirandola
Insegnamento 11: L'Umanista Tritemio
Insegnamento 12: Paracelso
Insegnamento 13: I Mistico di Port Royal
Insegnamento 14: Visioni di Emanuel di Swedenborg
Insegnamento 15: Saint Martin
Insegnamento 16: Il Filosofo Sconosciuto
Insegnamento 1: La Morte di Cleopatra
Prima di cominciare il racconto di alcune vite di Iniziati del Fuoco del segno del Pescatore –l'era nella quale il sentimento svolgerebbe un ruolo tanto importante nella lotta tra l'amore e l'odio–, converrà conoscere quella di un Iniziato del Fuoco dell'epoca precristiana.
Per ciò si è scelto Cleopatra, una delle figure storiche più discusse. Il suo nome è venuto ad essere come sinonimo di perfidia, perché sempre i dei diventano demoni in mani dei conquistatori.
Nel segno di Apis, soprattutto al suo termine, la gran unità espressiva dei valori direttivi, culturali e spirituali, incominciava a deteriorarsi, provocando nella sua fenditura un predominio della mente sul cuore, predominio che si manifestava come crudeltà e dispotismo, sebbene rimaneva in piede l'antica forza del potere e del valore.
Cleopatra incarna la decadenza definitiva di Apis, apparendo con tutte le deficienze della sua razza caduca, e con tutta la grandezza atavica di suo straordinario sapere e responsabilità direttiva. La sua opera è quella di ravvivare la fiamma nell'ultima ora per trasportare la torcia negli anali akásici e lasciare la sua figura, avvolta per l'aspide, incisa nella storia come attestazione misteriosa del passato.
È l'ora solenne della morte. Ma questa volta non è solo quella della morte di un essere, è quella di una Regina Iniziata. Ora della morte di Cleopatra, e con lei, quella del regno egiziano, della dinastia dei Tolomei della potente razza delle piramidi.
Alessandria che Cleopatra volle tornare ad alzare come testa di Oriente ed esempio del mondo, ultimo baluardo dei faraoni ellenisti conquistati per i romani, è circondata per il ghiaccio della morte.
Già il pane di Dio, la saggezza dei libri –incarnata nella grandiosa biblioteca–non esiste; gliela portarono le fiamme di un gran incendio.
Il potente faro che illuminava il suo porto e che si accendeva misteriosamente, animato chi sa per quale formula sacerdotale di correnti elettriche, anche è stato distrutto.
Le cupole di oro della gran città sono avvolte in un manto funebre. Fantasmi si appaiono sulla notte annunciando la prossima fine, e forze sismiche scuotono la terra durante vari giorni, come presagio di un avvenimento terribile.
E non è presagio di morte la silenziosa disperazione della Regina? Cleopatra non chiede già ai Re di Oriente che a lei si uniscano e vadano nel suo aiuto per sconfiggere al nemico latino; già non ordisce trame, né prova veleni mortali, né cinge la sua corona sulle tempie.
È troppo grande la sua tranquillità per credere che si è rassegnato alla sconfitta e la perdita del suo regno.
Inoltre i suoi fedeli la sentono mormorare: “Non mi trascinerà dietro a lui, non mi porterà nel suo corteo”. Octavio darebbe la sua mano destra per entrare a Roma portando legata al suo carro alla Regina dell'Egitto, come già Cesare aveva fatto colla sua sorella Arsinoe.
Ma a lei no; sarà regina fino al fine.
Ancora nel pomeriggio funebre, quando va verso il Mausoleo per rinchiudersi lì tutta vestita di azzurro –lutto delle vedove dell'Egitto – na segreta ispirazione l'incoraggia; che il potere spirituale dei faraoni possa dominare il potere delle armi e dell'organizzazione dei romani.
Con lei stanno i tesori dell'Egitto, il corpo di suo marito Marco Antonio e gli più fedeli amici e servitori.
Inginocchiata sul sarcofago che rinchiude il corpo dell'uomo che tanto amò, le sue lacrime non sono tuttavia di dolore.
Una donna non può soffrire così per amore.
Ella ha un ideale; ella appartiene solo al suo ideale; ricostruire la grandezza dell'Egitto.
Questo fu il gran delitto di Cleopatra: essere fedele al suo ideale.
Volle rivivere il potere degli egiziani, eredi degli Atlanti; ristabilire il regno della saggezza dello spirito. Ma fallì.
Per riuscirlo ha passato su mille morti e mille claudicazioni. Superando i sentimenti che fanno gradevole o spiacevole la vita giornaliera, arrivò alla soglia della divinità mentale. Ma adesso deve lasciare passo all'era dell'odio e dell'amore.
Tutta la potenzialità della sua forza mentale nell'ultima ora sta reconcentrada in questo: o mantenere il suo regno o sapere morire come Regna ed andare volontariamente al mondo astrale con tutta la grandezza del suo potere e del suo corteo.
Gli spii di Ottavio –che vogliono conservare la sua vita ad ogni costa– la vigilano strettamente; ma la Regina, in calma, pensa.
Educata dai Sacerdoti di Amón che conoscono le molle più segrete del corpo umano ed anche l'arte di morire, ella non può usare questo último mezzo perché il giuramento iniziatico la lega ad altre sei persone che, in tale caso, dovrebbero morire con lei. Se uno muore, i sette devono morire. Esisteva tra i giuramenti un laccio magnetico che non permetteva di fare effettiva la forza distruttrice nell'organismo se i sette non lo consentivano allo stesso tempo.
Si concentra sempre di più.
La sua unica speranza di salvare la grandezza dell'Egitto è il suo figlio Cesarione che fugge. Ma quando si rende conto che è stato tradito e morto, perde la Regina ogni speranza di salvazione.
Rimane solo un ultimo trionfo: morire di morte psichica.
I poderosi ed organizzati romani, tanto grandi energeticamente come poveri in saggezza, non compresero mai il mistero della morte di Cleopatra e dovettero accontentarsi di credere che una biscia l'aveva avvelenata, costruendo dopo una statua che rappresentava la Regina Iniziata in quell'atteggiamento.
È che il fedele discepolo della Regina, quando l'emissario romano si presentò a reclamarla, rispose ironicamente: “È morta, punta per il serpente divino”.
E davvero Cleopatra aveva morto così. Il serpente interiore del potere vitale, spinta per la volontà cosciente di Cleopatra, aveva ferito di morte a lei ed ai suoi sei compagni.
Così morì Cleopatra. Così, cosciente, entrò al regno delle ombre col suo corteo reale.
Ma c'è qualcosa da chiarire. Dove aveva imparato il mistero eccelso della trasmutazione cosciente?
Ella fu educata dai sacerdoti del Tempio di Armakis dove si conservava la scuola sacerdotale più antica che discendeva direttamente dagli antichi sacerdoti atlanti.
Sebbene questi sacerdoti fossero in principio nemici acerrimi dei Tolomei e facilitassero la morte e la disgrazia di più di uno di questa famiglia, ebbero tuttavia che arrendersi davanti ai suoi discendenti che si erano adattati integralmente alle abitudini egiziane ed erano, per il suo spirito dominante e vigoroso, gli unici che potevano difendere il barcollante trono dei faraoni.
Lo dimostra l'abitudine che avevano adottato, completamente egiziana e faraonica, di sposare i fratelli tra sé affinché dirigessero il destino del regno.
Cleopatra, reincarnazione dell'antica regina atlante di Somamu, univa alla smisurata ambizione per regnare ed alla sua straordinaria bellezza fisica, la concezione chiara che l'Egitto stava per perire di fronte all'Impero Romano se non l'ostacolava lo sforzo poderoso di alcuno dei suoi dirigenti.
Ella riunì in sé questo sforzo supremo.
Il lemma di tutta la sua vita fu questo: o conservare la grandezza dell'Egitto integra o portare con sé, attraverso la morte, la dignità e la grandezza del regno terminato.
Dai quattordici anni fu educata nel Tempio, dove gli furono insegnate le dottrine segrete di ammazzare i nemici e di rovinarsi a sé stessa se fosse necessario. In una parola: gli furono dedite le chiavi della vita e della morte.
Il sommo sacerdote di Armakis che gli ha insegnato il segreto, ha anche la chiave del Tabernacolo dove si guardano i tesori intatti da Ramses II e con essi la maledizione che porterà quello che arrivi a toccarli.
Ma una Regina senza ricchezze come potrà conquistare ed affrontare al poderoso Impero Romano?
Prende il posto del Sommo Sacerdote e giura usare solamente il tesoro per la grandezza l'Egitto. Questo atto, a dispetto di essere realizzato per una forte ispirazione idealistica, non la libera di caricare colle forze del male provenienti delle emanazioni negative che avvolgevano le tombe faraoniche.
Ed arriverà il giorno in che ella userà i tesori il Tempio per salvare disperatamente l'eredità dei Tolomei.
Compiendo questo atto estremo, Cleopatra porterà con sé anche nel suo corteo al mondo astrale i poteri del male della vecchia razza.
È necessario guardare all'Iniziato del tempo di Apis nei suoi due aspetti: grandezza nel bene e nel male ma fedele soprattutto al suo Ideale.
La Regina ha preparato regalmente tutti i dettagli dell'ultima ora. Si è impiegato sulle spalle il manto reale ricamato di giallo e bianco e picchiettato di zaffiri. Si è messo sulla testa la tripla corona faraonica che segnala il dominio sul mondo, sui morti e sugli spiriti.
Ha fatto chiudere ermeticamente tutte le porte del mausoleo e si è posto sul suo trono, circondata dai suoi fedeli discepoli.
Risolutamente sono disposti a passare al paese della morte. Si guardano fissamente negli occhi l'uno con l'altro ed una scossa leggera percorre i membri dei mistici suicidi. Lentamente incominciano ad addormentarsi ed ad essere invasi per il sonno tranquillo e gradevole annunciatore del fine.
Perché non muoiono ancora?, si domanda il fedele discepolo che aspetta l'ora solenne oltre alla porta. È che ancora la coscienza latente sta percorrendo, retrospettivamente i cammini delle sue vite.
Ma hanno finito. Un grido, una scossa, un cadere supino, un sorridere...e niente più.
La Regina è entrata nella regione delle ombre.
Ma là scorge il suo nuovo regno: il regno della Pace.
Tutta la sua coorte l'attesa. Si affretta in primo luogo il Sommo Sacerdote di Armakis: “Oh Regna –gli dice– qui vengo a cercarti ed a renderti omaggio. Vedi, oltre a me, questa infinità di esseri? Sono i tuoi sudditi; quelli che ti accompagneranno nel tuo nuovo regno. Il tuo sonno di potere e grandezza non fu vano. Qui uniremo le nostre forze, forgeremo una nuova grandezza e saggezza, e quando sia la nostra ora ritorneremo alla Terra, per realizzare i nostri sonni in un mondo ed un paese nuovi. Forgeremo un regno dove l'amore dei Figli del Pescatore non significhi disprezzo ed umiliazione, bensì bellezza, potere e grandezza”.
Insegnamento 2: Ammonio Saccas ed il Neoplatonismo
La cultura greca penetrò in primo luogo nel mondo cristiano mediante il neoplatonismo pagano e dopo per mezzo dell'adattamento di questo ai dogmi ed insegnamenti cristiani.
Alessandria, nel secolo II, già non era la fiorente città dei Tolomei.
L'Accademia Filosofica, fondata per Auletes, era decaduto enormemente e le luci intellettuali dell'epoca non la frequentavano oramai.
I romani che conquistavano tutti i paesi e distruggevano tutte le reliquie, avevano fatto alla filosofia greca sua tributaria relegando la religione egiziana.
Nonostante gli immigranti ebrei ed i nuovi cristiani avevano apportato un rinascimento nello studio delle filosofie, nell'affanno di adattarli ai suoi rispettivi credi.
Questo movimento diede vita alla scuola eclettica alla quale appartennero uomini illustri come Clemente di Alessandria, San Giustino Martire ed Atenagora.
Il cristianesimo nascente che aveva tracciato un piano di lavoro specialmente dogmatico per resistere le numerose eresie, incominciò a guardare questo movimento con sfiducia, ancora quando figure eminenti del suo credo appartenevano allo stesso, fino a che ci fu una separazione definitiva.
Questo favorì la fioritura del neoplatonismo.
Ammonio Saccas era nato ad Alessandria, nel secolo II, di genitori cristiani. Già da bambino dimostrò attitudini straordinarie. Durante i divini mestieri non poteva seguire le preci vocali e rimaneva come estasiato, egli dice, assorto in un'idea luminosa. Questa abitudine di astrarsi dalle cose materiali, gli varrebbe. più avanti, il soprannome di “Theodidaktos”, insegnato per Dio.
Essendo ancora molto giovane, entrò nella Scuola di Clemente di Alessandria e di lui imparò quell'amore tanto intenso verso la scuola accademica che non abbandonerebbe durante il resto della sua vita.
In quello tempo si erano dichiarati allora apertamente contrari alle idee culturali greche. Il Vescovo di Alessandria lanciò il primo grido: “Con Cristo o coi greci”. I più fanatici invasero le scuole, saccheggiarono le biblioteche, ed i testi furono distrutti delle fiamme. Fu tale l'indignazione che Ammonio ruppe definitivamente col cristianesimo.
In quelli giorni una visione ammirabile gli fu mostrato: una montagna incoronata per un fuoco perenne ed una donna di bianchi paramenti che lo conduceva fino alla bocca del cratere mostrandolo, sulle fiamme, differenti quadri che si riflettevano nel fuoco. Tutta la storia del mondo passava per di lì; vedeva le civiltà perse, le diverse religioni; tutti i paesi nascere, sorgere e sparire. Solo il fuoco continuava brillando e brillando.
Da allora la missione di Ammonio Saccas fu tracciata per sempre; uno è il fuoco, e molti le ombre che proiettano le sue fiamme, e considerò il cristianesimo come un gran ideale umano-religioso, ma non unico.
Grandi uomini si riunirono intorno a suo, ammirati della sua inesauribile saggezza ed ansanti di essere diretti da lui. Questo concorso lo decise a fondare la scuola neoplatonica che egli chiamò "Filaletea" e che si divise dopo in analogista e teurgista.
Di questa scuola uscirono l'estatico Plotino, il divino Porfirio, l'insuperabile Jamblico, il tenace Origene ed il devoto Erenio.
Per due secoli trionfò il neoplatonismo, ma la mano di ferro del cristianesimo aspettava il momento opportuno per impadronirsi della sua essenza e dopo distruggerlo.
Dirigeva allora la scuola neoplatonica Hypatia, figlia del matematico Theon che aveva imparato di suo padre l'algebra del numero e quello dell'universo. Ella fu chi insegnò la dottrina eterna al Vescovo Sinesio che egli trasmise in quell'ammirabile "Libro della pietra filosofale." Ma Hypatia aveva un nemico terribile in Cirilo, nipote del Vescovo Teofilo di Alessandria. Era questo uomo severo, fanatico e molto geloso del suo dogma; più tardi diventerebbe famoso nel Concilio di Efeso.
In vano Cirilo aveva cercato di convincere la sapiente giovane che diventasse cristiana. Il paese fanatico si credè frustato per Dio attraverso alcuni anni di miseria e Cirilo affermò che la colpa era di Hypatia, per non volere abdicare delle sue credenze.
Lì andarono a cercarla; strapparono la sua bianca tunica di vergine pagana, la trascinarono fuori della città e la lapidarono ignominiosamente.
Dovettero passare tredici secoli prima che Marsilio Ficino fondasse a Firenze l'Accademia Scolare che segnò il rinascimento del neoplatonismo.
Erenio fu discepolo di Ammonio Saccas. Solamente si conosce di lui una caratteristica contata per Porfirio nella sua “Vita di Plotino”.
Ammonio Saccas gli aveva fatto il dono di iniziarlo nella parte più segreta della sua dottrina, come a Plotino ed Origene. I tre si impegnarono mutuamente a non divulgare mai gli insegnamenti del suo maestro. C'essendo Erenio mancato alla sua parola, i due restanti si crederono liberati del giuramento.
Origene, il cristiano, appartiene al periodo dell'illuminazione teologica che seguì alla predicazione del Vangelo. Le nuove nozioni su Dio e sul mondo che trattenevano gli insegnamenti da Gesù, dovevano essere sviluppate, redatte e costruite in corpo di dottrina.
Di lì l'immenso lavoro che nei secoli seguenti darebbero certe opere come quelle della Redenzione, la Trinità, la Grazia, l'Incarnazione, eccetera.
Questi dogmi apparvero all'inizio solo sotto forme oscure, confuse e, quindi, indecise. È possibilmente che Origene sia stato il primo che comprese la necessità di riunirle e sistematizzarle; ma per potere realizzare questa opera tanto laboriosa, gli era indispensabile l'appoggio della filosofia.
Profondo conoscitore delle filosofie antiche, usò tutto il potere del suo genio in conciliare la doppio autorità della fede e della ragione. È questo che gli concede un carattere particolare e che lo distingue nella storia intellettuale dei primi secoli della Chiesa.
Nato ad Alessandria verso l'anno 185 di genitori cristiani, ma educato nello studio delle scienze greche, Origene dimostrò dalla sua infanzia una viva intelligenza. Come doveva imparare a memoria passaggi delle Scritture, non poteva accontentarsi col suo senso letterale e cercava sempre un'interpretazione più elevata. Ebbe per maestri a San Clemente e San Panteno che furono i primi in insegnare filosofia cristiana ad Alessandria. San Clemente l'iniziò nel platonismo e San Panteno nello stoicismo.
Durante le persecuzioni che per ordine dell'imperatore Settimo Severo si diressero contro i cristiani di Alessandria, Leonida (o Leonide), padre di Origene fu arrestato. Unicamente le suppliche della madre poterono ostacolare che il giovane seguisse le orme di suo padre ed affrontasse il martirio che il suo progenitore soffrì nell'anno 202. Origene aveva allora 17 anni.
Per potere sostenere alla sua madre ed ai suoi sei fratelli, dovette dedicarsi all'insegnamento della grammatica. Aveva cessato ad Alessandria il libero esercizio della religione cristiana. San Clemente, minacciato per i suoi persecutori, si era rifugiato in Capadocia. I cristiani, privati dell'insegnamento religioso, si accalcarono attorno al giovane maestro che riprese gli studi teologici con rinnovato ardore. Riuscì conversioni brillanti e Demetrio, Vescovo di Alessandria, lo stabilì all'età di 20 anni nel seggiolone di San Clemente e San Panteno.
Comincia allora per lui un'epoca di lavoro, di attività intellettuale e di austerità.
Sostenitore delle idee orientalisti che consideravano al corpo come un nemico, si esauriva a forza di digiuni e macerazioni e finalmente, per dominare le tentazioni carnali, arrivò a mutilarsi colle sue mani. Questo atto, del quale si pentirebbe più tardi, conviene sottolinearlo per essere la causa prima delle sue disgrazie posteriori ed anche un segno evidente della sua dottrina che consideravano al corpo come nemico dell'anima. Riconobbe più tardi che è per la propria energia dello spirito che deve esercitarsi quella lotta contro i sensi; è nell'anima dove bisogna domare le passioni senza attentare contro il corpo.
La sua opera principale, “I Principi”, è uno sforzo per abbracciare la dottrina cristiana nel suo insieme e fondarla su principi generali e scientifici.
La maggior parte delle sue opere sono arrivati fino a noi attraverso la traduzione latina fatta per Rufino chi alterò i testi nei passaggi audaci, soprattutto in quello della Trinità, per tornarlo più ortodosso. È lì dove si scopre il piano di Origene; piano audace per la sua epoca di presentare i principi fondamentali del cristianesimo in un insieme sistematizzato.
Forse per il fatto di che questa prova era piuttosto audace, risultò fallita. Questo scritto l'attrasse il rimprovero eretico e alzò contro di lui molte inimicizie.
La caratteristica più importante della dottrina di Origene si trova nella fusione che cerca ottenere tra la filosofia antica ed il cristianesimo.
Venerando a Platone, lo relega quando osserva che nella pratica si applicano meglio le teorie di Epicteto.
È accusato di essere il causante delle eresie che dopo divisero alla Chiesa; ma se è certo che Origene non riuscì fissare chiaramente il simbolo della fede cristiana sui dogmi della Trinità, della Grazia e dell'Incarnazione, questi dogmi ancora indecisi in quell'epoca per tutta la Chiesa, non erano arrivati ancora al suo punto di maturità ed al momento propizio per il suo sviluppo. Furono necessari i susseguenti lavori di Atanasio, San Basilio, San Agostino, Cirilo, eccetera, per preparare una soluzione sufficientemente precisa di questi dogmi che Origene non aveva fatto più che abbozzare.
Anche Origene aspira a conciliare la nozione dell'unità inalterabile di Dio, come se la trova in Platone, con l'idea dell'energia nella che Aristotele colloca l'essenza di Dio.
La nozione platonica sta, secondo lui, integralmente nella nozione di Dio Padre; invece l'idea aristotelica si rinchiude in quella del Figlio di Dio. Allo stesso tempo Origene ci presenta a Dio come la sostanza che penetra al mondo intero e vive la stessa vita che l'anima razionale. Nel sistema di Origene, la morte di Cristo redime a tutti gli esseri, ancora a Satana e le anime condannate.
Demetrio che tanto lo proteggesse in un principio, si trasformò nel suo nemico giurato.
Scomunicato ed esiliato di Alessandria, alla morte di Demetrio continuò ad essere perseguito dal successore, il Vescovo Heraclas, per quindici anni. Alla morte di questo, Denys, amico di Origene, non ebbe valore per farlo ritornare dell'esilio.
Era una vera guerra di dogmi, nella quale Origene rappresentava il cristianesimo sintetizzato per la scuola di Platone, e Demetrio il cristianesimo della scuola ebrea di San Marco; guerra che durerebbe tre secoli e che cominciò respingendo il suo ordinamento come sacerdote, adducendo che era un mutilato che oltraggiava all'umanità.
Posteriormente si redasse un canone speciale nel Concilio di Nicea per dichiarare che l'integrità sessuale era indispensabile per ordinarsi come sacerdote.
Origene passò qualche tempo in Atene ed il resto dei suoi giorni in Cesarea e Tiro. Visse ancora 24 anni più, proseguendo lo sviluppo delle sue idee, ma senza avere scuola. La sua autorità, sparita in Occidente, si accresceva in Oriente. Era l'oracolo della Palestina, Fenicia, Cappadocia, Arabia, e della stessa Accadia.
Si trovava in Palestina quando esplose la persecuzione di Decio e fu una delle sue prime vittime. Cacciato ad una cella, a 69 anni, con ferri nei piedi e collo, resistè con coraggio le torture, ma rimase bistrattato e morì in Tiro, poco dopo essere stato liberato, nell'anno 255 a 70 anni.
Insegnamento 3: Il Misticismo Estatico del Mondo Antico
Plotino nacque in Licopoli, Egitto, nell'anno 205.
Tutti i dettagli della vita di questo gran essere sono pieni di un profondo significato nello sviluppo della sua missione nella terra. Come egli doveva portare di Oriente ad Occidente, attraverso il ponte del neoplatonismo, la saggezza degli estatici, nasce in Egitto, culla dal misticismo religioso, e è iniziato nella Gran Scienza della concentrazione interiore. È educato per Ammonio Saccas, il fondatore del neoplatonismo, ed insegna e muore a Roma, futura sede del cristianesimo.
Il giovane Plotino ebbe un'infanzia ed un'adolescenza felici. Fu amato dai suoi genitori e stimato per tutti. Sotto la tutela di un saggio precettore studiò tutte le scienze di quell'epoca: grammatica, oratoria, mistica, geometria, astronomia e matematica.
Padrone di un gran talento arrivò presto ad emergere nei suoi studi ed a sentire la necessità di ampliare i suoi orizzonti, portando con sé il tesoro dell'Egitto quando fu inviato ad Alessandria.
Nella città dei Tolomei, dovuto al suo fisico gradevole, soccombè all'influenza della bellezza e della vita sensuale. Ma ben pronto reagì.
Gradualmente attraverso dello studio e della ricerca dei grandi tesori della Biblioteca di Serapione continuava a penetrare nel mondo incantato dello spirito. E riuscirebbe a vedere faccia a faccia a Dio, nel silenzio del suo cuore, insegnando quell'unica realtà agli uomini di Occidente, alla futura razza trionfatrice. Si isolò a poco a poco dagli studi e dei piaceri dell'intelletto, specialmente per l'influenza che esercitava Ammonio Saccas su lui.
Plotino convisse undici anni con Ammonio e seguì la sua volontà infrangibile nella forte disciplina che l'impose il suo maestro. Per un lasso di tempo si sottomise anche, in una collina del Sud di Alessandria, all'allenamento degli terapeuti, organizzazione ascetica composta per uomini celibi che riuscivano poteri psichici e curavano con forza mentale.
Agli inizi dell'anno 244, Ardeshir (o Ardashir), rivoluzionario persiano, invase la Mesopotamia. Plotino si arruolò nelle file di Cordiano per compiere un dovere patriottico e soprattutto per seguire i consigli di Ammonio che desiderava che il suo discepolo facesse una peregrinazione per l'Oriente. Morto Cordiano, vittima di Filipo, riuscì Plotino rifugiarsi ad Antiochia e di lì passò definitivamente a Roma.
In breve tempo acquisì gran prestigio nella città Eterna.
Tuttavia dovette sopportare una dura prova. Un alessandrino chiamato Olimpo, padrone di una vasta cultura e che conosceva tutte le scuole filosofiche, quando Plotino arriva, diede in attribuirsi le preferenze di Ammonio. Annientato per la superiorità spirituale di Plotino ricorse ad arti magiche per danneggiarlo. Ma pronto dovette notare che l'anima di Plotino era tanto forte che tutto il male che gli ero diretto si ripercuoteva sui suoi stessi aggressori.
Ebbe molti ed illustri discepoli, tra essi Porfirio, Amelio, che assistè il Maestro fino alla morte, Rogamino, senatore romano e la matrona romana Gemina, la quale offrì a Plotino la sua casa che Plotino accettò, per fare lì prova di vita in comune.
Plotino insegnò costantemente. Il valore di tutta la sua filosofia sta nella definizione di che la suprema filosofia è amare a Dio e sforzarsi per trovarlo, unendosi a Lui mediante la concentrazione.
Morì Plotino nell'anno 272 dopo avere realizzato a Dio in intima e divina unione per due volte.
Plotino non era solo esperto nella storia delle dottrine religiose e filosofiche, ma anche in geometria, aritmetica, meccanica e musica. Aveva studiato astronomia, possibilmente più dal punto di vista dell'astrologia che della metafisica, ma avendo riconosciuto la falsità di varie predizioni rinunciò a questa pretesa scienza e anche scrisse impugnandola come tale.
Era molto eloquente nei suoi insegnamenti, a dispetto di un vizio di pronuncia ed all'assenza assoluta di un metodo negli insegnamenti. In realtà non erano conferenze ma si concretavano a rispondere con molto ardore alle domande che gli erano proposte.
A 10 anni di avere cominciato i suoi insegnamenti, cominciò a scrivere le sue opere.
La filosofia della quale egli credeva possedere l’ultima parola, era per lui un'iniziazione, patrimonio dei saggi, delle anime scelte e non l'eredità dell'umanità.
Erenio e dopo Origene, che come egli, avevano giurato non pubblicare la dottrina del suo maestro Ammonio Saccas, furono i primi a mancare alla sua promessa, e Plotino si decise a scrivere solamente dopo essere successo tale cosa.
Gli mancava non solo l'abitudine di farlo, ma anche l'ortografia. Le sue frasi risultavano inconcluse, i suoi ragionamenti si enunciavano appena, e tutto questo ostacolava la diffusione delle sue idee. Era unicamente la forza del suo pensiero che lo tornava eloquente senza arte. Non si proponeva un piano determinato; a volte sviluppava una dottrina che lo preoccupava ed anche impugnava un libro che era appena apparso.
Questi frammenti sparsi, riuniti e corretti per Porfirio, formarono 54 libri divisi in 6 Enneadi. Ancora dopo la revisione di Porfirio, effettuata dopo la morte del suo maestro, le Enneadi sono solamente un insieme di dissertazioni filosofiche su tutti i temi possibili, attraverso i quali si deve cercare, non senza ostacolate, l'unità del pensiero di Plotino.
Queste parole erano scritte sulle porte del santuario platonico: “È difficile scoprire l'autore e padre del mondo, e quando è stato trovato è impossibile darlo a conoscere agli uomini." Si sa che il nobile spirito di Platone fermava lì lo sforzo della scienza.
Oltre l'essere, ultimo termine scientifico che egli volle ammettere, percepiva chiaramente l'Unità superiore all'essere, ma non osava accettare quello principio, perché la ragione gli esigeva collocare questo principio al di sopra dell'essere in sé ma, allo stesso tempo, la ragione non poteva comprenderlo né spiegare per mezzo di lui l'esistenza e la vita del resto delle idee e di tutti i fenomeni. In questo modo tutta la catena di deduzioni dialettiche era razionale e rigorosa, purché rimanesse incompiuta, poiché l'ultimo termine della ragione contraddice a lei stessa e, d'altra parte, se la ragione si rifiutasse di dire quell'ultima parola non invaliderebbe solo l'esistenza di un principio che lei stessa non osava proporre nella sua estrema conseguenza, ma ella rimarrebbe senza conclusione e per conseguenza senza un sistema vero. Può versi in Parmenide e nel sesto libro "La Repubblica" fino a che punto Platone si era preoccupato per questa difficoltà capitale.
Come uscire da questa difficoltà senza scappare dal campo della ragione?
Solo un mistico poteva trovare la soluzione.
La ragione genera la dialettica e la dialettica, portata alla sua ultima conseguenza, contraddice la ragione; per ciò Plotino arrivava alla conclusione che la ragione è solo una facoltà subordinata. Cessano di essere assolute per lui le regole della ragione, e se l'uomo non ha facoltà superiore alla ragione esiste, nonostante, un mezzo di fuggire all'impero dalle facoltà, di conoscere senza aiuto di esse; questo mezzo è l'estasi.
L'estasi è la partecipazione dell'uomo nella felicità ed intelligenza di Dio per la fusione completa e momentanea della natura infinita colla natura individuale. Grazie all'estasi, Dio, conseguenza suprema della dialettica, può contraddirla allo stesso tempo e, nonostante, questo risultato essere accettabile.
Anche la psicologia di Plotino va parallelamente colla sua metafisica. Accetta il valore dei sensi, colloca su essi la ragione coi principi, le leggi generali e tutto il sistema delle idee; e sopra la ragione colloca all'estasi che ci scopre l'unità assoluta per la quale non le leggi della ragione non si sono fatti.
Arrivati a questo punto del sistema di Plotino, ci sono qui i tre problemi:
1°) Che cosa è l'estasi?
2°) Chi è quello Dio dimostrato per la ragione, ma che questa ragione non sa comprendere?
3°) Come ritorna da Dio all'Uomo?
L'estasi è uno stato di unione dello spirito dell'uomo con Dio nel cui stato il corpo fisico si trasforma in un palazzo deserto, abbandonato per il suo padrone e che non ubbidisce ad altre leggi che quelle della sua natura organica. È una morte anticipata; per meglio dire, una vita anticipata poiché, soprattutto per i mistici, è eccessivamente reale la frase di Platone che dice: "Morire è vivere."
È la morte della molteplicità, della coscienza, della personalità. È l'assorbimento momentaneo dell'individualità in Dio.
Le cause generatrici dell'estasi sono tre: l'amore, assecondato per la conoscenza e la volontà.
La conoscenza, dissipando i veli che oscurano il nostro spirito, ci colloca di fronte all'Unità; la volontà si sforza per esulare dalla variabilità e per rompere l'ultima involtura sotto la quale l'Assoluto risplende nella sua gloria; ed infine l'amore che trova finalmente l'unico oggetto che può nutrirlo si lancia come una fiamma viva e si riesce l'unificazione per mezzo della sua intermediazione.
La virtù e la preghiera ci fanno degni di questa suprema felicità, ma la preghiera si traduci in Plotino in fervente aspirazione, in un energico impulso dell'amore verso un'unica fine. Man mano che la scuola avanzi e che la forza di ispirazione diminuisca, la preghiera cederà il suo posto in primo tempo, e dopo i riti teurgici saranno quelli che occupino il posto dell'amore. L'illuminazione è in Plotino una dottrina filosofica piena di profondità a dispetto dei suoi eccessi; in Jamblico sarà solamente una superstizione.
Il Dio di Plotino risponde a tutti i problemi che Platone aveva proposto e lo risolve per tutte le soluzioni auspicate per Platone. Platone aveva compreso che l'ultimo grado della dialettica è, in un certo modo, l'ultima aspirazione dello spirito umano; è l'unità assoluta, l'unità superiore dell'essere. Plotino senza vaccilare proclama che l'unità assoluta è realmente il concetto più adeguato alla vera perfezione di Dio. Ma allo stesso tempo che relegava la Divinità di quelle inaccessibili profondità nelle quali il movimento e la variabilità erano esiliate, Platone vedeva aprirsi tra il suo Dio ed il mondo un insormontabile abisso. E sul bordo di questo abisso la sua mente si fermava barcollante. Tutto, nell'universo, gli dimostrava che il re del mondo deve essere intelligente ed attivo; tutto, nella mente, lo costringeva ad elevare al suo Dio al di sopra dell'azione dell'intelligenza.
Di lì quelle oscillazioni della sua dottrina, tra i sonni di Parmenide e le affermazioni del Timeo.
Plotino non sogna né vacilla. La necessità del Dio organizzatore è evidente e pertanto l'ammette. È il Re, il Padre, l'Organizzatore, la Provvidenza, il Demiurgo, Dio vivo ed attivo: dalla sua energia si genera ogni energia, e la sua vita è vita di tutte le vite; che si espande senza cessare del suo seno e che al suo seno senza cessare fa ritornare torrenti di vita universale. Questo Dio, per la stessa cosa che vive, è mobile; al di sopra di questo Dio dotato di movimento, un principio sorvola e, per così dire un Dio più elevato, l'intelligenza. Platone non si è alzato anche fino a lì? Il Dio attivo che separa la luce dalle tenebre nel Timeo e concede alla materia il movimento, è il Dio stesso che nel Parmenide, nel Fedro e fino nel Timeo, è il re del mondo intelligibile, il sole della mente, quell'intelligenza immobile della quale Aristotele dirà, formulando in proprio la stessa dottrina che il suo maestro, che è il pensiero del pensiero?
Seguendo a Platone, Plotino si alza fino a quella perfetta e divina intelligenza, e senza tremare come Platone davanti alla vista di queste necessità contraddittorie, colloca risolutamente l'intelligenza immobile che è il primo degli esseri, sull'attività mobile che è il re del mondo della variabilità, e sotto un terzo concetto più completo ancora, cioè l'unità assoluta, superiore all'essere, della quale fa il primo termine della trinità divina. Così, questo Dio, questa triade divina risolverebbe tutti i problemi.
Dio produce necessariamente l'universo, senza principio né fine. Lo produce come è perché tale è la sua natura, quella che doveva avere. In una parola, Dio non poteva smettere di crearlo né farlo altrimenti.
Abituati come stiamo a giudicare le cose di accordo alla nostra natura, pretendiamo di giudicare il potere di Dio attraverso la nostra debolezza. Non comprendiamo la nostra libertà e pretendiamo di comprendere quella di Dio. Se Dio potesse fare l'universo in forma distinto, Dio non sarebbe libero; ma è libero perché non aveva possibilità di scegliere. Che è l'elezione bensì la possibilità di scegliere, tra due rotte, la peggiore? Supporre che Dio sceglie, è supporre che Egli può vacillare nel suo giudizio o soccombere nella sua azione, cioè supporlo imperfetto.
La possibilità di sbagliarsi o di fallire diminuirebbe il potere e quindi la libertà divina. Plotino non è l'unico panteista che, desiderando incatenare il potere creativo nelle mani di Dio, ha dato il nome di libertà a questa necessità inevitabile, considerando come un inno alla libertà questa consacrazione del fatalismo.
Come si crea l'Universo? C'è qualcosa fuori di Dio che possa servire da ricettacolo alle sue emanazioni?
Secondo Plotino, lo spazio non è niente. La materia, mentre sta negli esseri, discende fino ad essi allo stesso tempo che la forma, perché ogni comincio genera la molteplicità, cioè la materia, e l'unità, cioè la forma o l’immagine del principio stesso. Niente è in questo modo fuori di Dio, né spazio né materia. Se esistesse qualcosa fuori di Dio, ancora lo stesso universo, Dio sarebbe limitato, e questo è impossibile. Pertanto tutto sta dentro di Dio, ed in Sé stesso è che fatalmente produce l'universo.
Come l'intelligenza divina è il laccio degli spiriti, l'anima divina è quella dei corpi.
Tale è la legge che spiega l'origine dell'universo e per cercare la legge del movimento è necessario, in un certo modo, rimontare la corrente. Tutto è espansione e concentrazione nel movimento vitale. Per queste paia di opposti l'universo si mantiene indefinitamente simile ed uguale a sé stesso. Appena l'essere è stato generato comincia la lotta per ritornare alla fonte di origine.
Tutto esce da Dio ed a Dio deve ritornare.
Il Dio di Plotino è anche uguale all'alfa ed omega delle Scritture; è il principio del movimento perché lo genera e è anche la causa finale perché lo ritrae. Non solamente è la perfezione ma anche il bene. Non è solo il sole delle intelligenze, ma anche il centro al che tutti gli amori aspirano.
La morale di Plotino è simile a quella di Platone: pura, austera, slegata del mondo, invariabilmente applicata a riprodurre l'ideale della perfezione divina.
Le virtù del filosofo sono per Plotino virtù purificatrice, iniziatiche, che ci slegano completamente del mondo e ci preparano per l'estasi. Queste virtù sono: giustizia, saggezza ed amore. Per lui come per Platone, la saggezza è una virtù perché l'eleva e genera l'amore ed al di sopra di tutte le virtù, come coronamento delle stesse, arriva l'unione con Dio, l'estasi.
Amelio o Amerio, discepolo di Plotino, fioriva verso il fine del secolo III dell'era cristiana. Era nato in Etruria e si chiamava Gentiliano. Probabilmente nel suo desiderio di sottolineare il suo disprezzo per le cose mondane, scelse il nome di Amelio che significava in greco “negligente”.
In un principio si era rifugiato nello stoico Lisimaco, ma gli scritti di Numenio, attualmente persi, caddero nelle sue mani e lo sedussero in forma tale che li imparò a memoria e li copiò personalmente. Da quello momento, ovviamente, egli appartenne alla scuola di Alessandria nella quale Plotino era il suo più illustre rappresentante. Amelio andò a cercarlo a Roma e, per 24 anni, dal 246 al 270, seguì le sue lezioni con rara assiduità.
Egli redigeva tutto quello che sentiva di bocca del suo maestro, aggregando i suoi commenti e compose così, a stare per quello che Porfirio dice, 100 volumi. Disgraziatamente non è arrivato nessuno ai nostri giorni, poiché possibilmente dissiperebbero molte nuvole che esistono sulla filosofia neoplatonica. È tanto più sensibile questa perdita quanto che Plotino lo considerava come quello dei suoi discepoli che meglio comprendeva il senso delle sue dottrine.
Tra le opere che si attribuiscono ad Amelio, c'era una che mostrava la differenza tra le idee di Plotino e quelle di Numenio, e che giustificava al primo dei filosofi famosi, dell'accusa intentata contro di lui che era stato un plagiario di Numenio.
Dopo la morte di Plotino, Amelio abbandonò Roma per andare a stabilirsi in Apamea, in Siria, dove passò il resto dei suoi giorni.
Aveva cercato come gli altri filosofi della stessa scuola, alzare per mezzo della filosofia, il paganesimo che moriva.
Di Jamblico, filosofo ed illustre rappresentante della scuola di Alessandria il cui data di nascita così come di morte é ignorate, solamente si sappi che nacque in Chalcis, in Coelesiria, di genitori ricchi e considerati, e che fiorì nel regno di Costantino.
Gli è assegnato come primo maestro ad un certo Anatolio che lo presentò a Porfirio. Alla morte di questo, fu l'oracolo della scuola di Alessandria, verso il quale affluivano i discepoli. Nonostante l'austerità del suo linguaggio e le aride forme del suo insegnamento, era tale l'ascendente che riusciva sui suoi discepoli che una volta affezionati a lui non l'abbandonavano più, mangiando al suo tavolo e seguendo a qualunque parte che si trasportasse. L'entusiasmo che svegliava tra essi era tanto grande che gli ero attribuito il dono di fare miracoli, la levitazione, eccetera.
Di suoi numerosi operi sono arrivati solo ai nostri giorni una vita di Pitgora ed un’Esortazione alla Filosofia.
Per commenti di Proclo si conoscono le sue teorie filosofiche che sebbene fossero una continuazione degli insegnamenti di Plotino e Porfirio, divergevano con questo in alcuni aspetti. Per esempio: sulla variabilità degli esseri individuali. Porfirio l'attribuiva alla materia; Jamblico, invece, spiega quella variabilità distinguendo nel mondo intelligibili principi di unità e di identità da un lato e principi di diversità per l'altro.
A differenza dei suoi predecessori, Plotino e Porfirio, la psicologia di Jamblico testimonia uno spiritualismo meno severo e meno assoluto; Jamblico rimprovera a Plotino l'avere fatto dell'anima un principio impassibile e sempre pensante e quindi dell'avere identificata con l’intelligenza stessa. In questa ipotesi si domanda Jamblico chi fallirebbe in noi quando trascinati per il principio irrazionale ci precipitiamo nei disordini dell'immaginazione? E se, d'altra parte, ammettiamo che la volontà ha ceduto, come potrebbe rimanere l'anima infallibile? Jamblico si manifesta nelle sue dottrine più moderate, più platonico che suoi predecessori. La sua stessa morale è di un ascetismo più moderato. Ripete che l'uomo è il vero autore delle sue azioni ed anche, che è il suo demonio –daimon–, ma anche, seguendo ai suoi maestri aggrega che il fine che persegue l'anima è la contemplazione delle cose divine e che la virtù è il mezzo di arrivare, e nonostante nella sua teologia sia molto ma superstizioso che Plotino e Porfirio, professa una morale più pratica e più umana.
Insegnamento 4: Isidoro di Siviglia ed i suoi Parenti
Intrinsecamente la vita degli Iniziati non può essere conosciuta nella sua ubicazione storica e geografica, bensì sapendo la missione caratteristica e strategica che hanno svolto.
La missione di Isidoro di Siviglia è peculiare e straordinaria. Eredita intatta la fede cristiana sulla divinità di Gesù Cristo e sintetizza, in paragrafi brevi, tutta la saggezza antica nelle sue "Etimologie", trasmettendo alla posteriorità cristiana una bussola di orientazione scientifica. Tuttavia il cristianesimo gotico è l'affermazione assoluta della religione sulla cultura e la scienza.
Nel secolo IV un denso velo si estende su tutta l'Europa. Le continue invasioni dei barbari fanno che gli esseri debbano lottare per salvare le sue vite e sussistenze, perdendosi il vero senso dei valori storici.
Isidoro cerca di salvare tra tante rovine il tesoro della scienza, adattandola alle possibilità e credenze cristiane.
Inoltre, la missione della famiglia di Isidoro è altrettanto importante. Si può dire che Leandro è il difensore della fede, ed Isidoro della scienza cristiana.
Il padre, di provenienza greco-romana, era emigrato per ragioni politiche da Cartagena a Siviglia. La madre era di stirpe visigota; per quel motivo, ariana convertita al cattolicesimo. Di questo matrimonio nacquero Leandro, Fulgencio, Fiorentina ed Isidoro.
Dentro di questa famiglia cristiana stava il problema palpitante dell'epoca. Il padre, cattolico, difende la divinità di Gesù Cristo e la madre, dal culto ariano, cerca di attenuare ed umanizzare quella divinità.
Se il cristianesimo perdeva il valore della divinità, basato in Cristo, avrebbe perso ogni possibilità di sussistere. La religione sussiste, unicamente, se la sua origine è divina e non umana.
Leandro, il maggiore di essi, comprende l'importanza definitiva di questa questione. Per quel motivo difende dentro della casa il dogma cattolico conquistando alla madre.
Quello che è buon organizzatore dentro della sua casa può cercare di organizzare ad un paese. E questo è quello che Leandro fa come monaco, come sacerdote, come vescovo e come teologo cristiano. La lotta è ardua e dura; egli comprende che è lotta di vita o morte e che, per definirla sulla terra, ha bisogno dell'aiuto della politica.
I re visigoti sono ariani. Per quel motivo egli sostiene al ribelle Hermenegildo contro suo padre, poiché quello è cattolico. Sa che politicamente Hermenegildo non ha ragione; ma è cattolico e basta. Sopporta con lui le sofferenze e l'esilio, e lo proclama martire quando è assassinato nella prigione. Sostiene a suo fratello Fulgencio ed a sua sorella Fiorentina, di carattere più debole e, dopo la morte del re Leovigildo, converte a Fattorino, suo figlio, in nuovo re.
Il cattolicesimo sta a salvo; la divinità di Gesù Cristo è assicurata, la sua opera compiuta. Ma durante queste lotte la scienza decade.
Il più piccolo della famiglia, Isidoro, educato per Leandro, dopo la morte di questo riceve il palio episcopale, una fede intatta ed un futuro cattolico assicurato. Ma il fanatismo e l'ignoranza hanno distrutto e devastato l'antica scienza; la sua opera è raccogliere i frammenti di questa, dargli un aspetto cristiano e trasmetterla alla posterità.
Cerca di sviluppare tutte le scienze nelle sue “Etimologie” ma non ha successo nel suo tentativo. Sintetizzandoli li toglie il suo valore reale; non c'è lì una regola vera bensì una guida verso la regola stessa, come se dicesse al viandante del medioevo: guarda, c'è qui una possibilità, scrutina e potrai trovare.
Le “Etimologie” toccano tutte le scienze: la letteratura, la filosofia, la matematica, la medicina alla quale era molto affezionato, la fisica ed altre. Oltre a saggio, Isidoro era un uomo sacro. Viveva in quelli secoli nei quali il Vescovo era un monaco tra i monaci, un padre tra i suoi figli, ed un pastore tra il suo gregge. La morte non lo trovò dormendo. In piedi, coraggiosamente si fece portare per i suoi frati davanti all'altare per morire adorando al Signore che aveva riconosciuto su tutta la sua vita.
Isidoro morì in anno 636 e la sua opera servì per mille anni, non solo alla Chiesa della Spagna, bensì a tutta la Chiesa verso il sapere.
Insegnamento 5: Il Rinascimento Aristotelico di Avicenna ed Averroè
La cultura e la saggezza greca con tutta sua la purezza e chiarezza sparirono, così si può dire (poiché il neoplatonismo cristiano la svisò molto dopo la definitiva soppressione del paganesimo e dell'allontanamento dei suoi saggi, decretata per Giustiniano nell'anno 500.
Questo imperatore afferma il diritto politico dei romani e lo dà come eredità ai paesi cristiani nel suo Digesto, ma annulla la cultura mentale per l'asseverazione unica del Dogma. La cultura greca passa a Persia per i saggi esiliati e è conservata per l'Islam.
Nel tempo di oro arabico rinasce in Spagna musulmana, attraverso Avicenna ed Averroè, chi traducono, studiano e commentano in lingua araba allo Stagirita.
Avicenna il cui nome vero è Abu Ali Husein, nacque in Persia, vicino a Chiraz nell'anno 980, e morì in Hemadan nell'anno 1087. Era figlio di Senna, Patriarca della Valle di Bochara.
Avicenna, da bambino, fu tanto precoce che all'età di 7 anni si faceva già ammirare per la chiarezza dei suoi concetti e la sorprendente facilità per imparare tutto quello che gli ero insegnato. All'età di 18 anni aveva reso già grandi servizi all'umanità come medico e come Iniziato.
Abbracciò tutti i campi della scienza e della filosofia, facendo una sistematizzazione di queste, più ampia e completa.
In medicina apre nuove rotte e condensa le sue idee nel “Canone di Medicina”, composto a 21 anni, che per secoli reggesse le scuole dell'Asia ed Europa.
Inoltre molte altre opere, specialmente di matematica, è fondamentale il suo trattato Mistico, vero insegnamento esoterico.
Chiamato per il Sultano Cabans, lo curò di una malattia grave. Riconoscendo questo ed ammirato delle sue eminenti doti, lo nominò Gran Visir.
La sua opera fu continuata da Averroè a chi, come Maestro, diresse dal Mondo Astrale, un secolo più tardi, nell'età di oro che i principi almorabidi avevano portati alla Spagna araba. Le guerre sanguinanti avevano cessato; i cristiani, impotenti, non facevano sentire più che i suoi lamenti e maledizioni.
Tutto il dominio della Mezza Luna che sembrava per allora onnipotente, fioriva dal Mediterraneo fino all’oceano Indiano.
In questi periodi di pace e prosperità è quando appaiono nelle nazioni i grandi maestri delle scienze e dell'insegnamento. Nella filosofia, nel diritto, nella fisica, nell'astrologia, nella medicina e soprattutto nella matematica, emergevano gli arabi.
Già Avicenna, il grande, aveva dettato la sua cattedra di filosofia sperimentale, di tipo aristotelico, che aveva trasformato il viso filosofico di tutto il mondo. Per allora l'Islam era il padrone non solamente di quasi tutti i paesi di Oriente, ma anche del pensiero intellettuale dell'epoca. Per allora, a Cordova nell'anno 1126, nacque Abul Uelit Ibn Rachid che la posterità conoscerebbe col nome di Averroè.
Suo padre non era solo Cadì di Cordova, ma anche amante delle lettere e delle arti. Da giovane soleva, il predestinato, sedersi ai piedi di suo padre, di fianco a suo saggio nonno, quando questi, in mezzo degli anziani, discutevano sull'immortalità dell'anima e commentavano le nuove scoperte.
Era una mattina di primavera dell'anno 1138. Stava Averroè vicino ad un ampio finestrone che dava al giardino, dove i fiori e gli uccelli non avevano più limite che lo spazio infinito. Quale sarà, pensava l'adolescente, la forza nascosta che dà vita al fiore, che anima agli uccelli e che colora il cielo di azzurro? Una mano invisibile deve stare dietro tutto questo; qualche ente poderoso ed irresistibile. Come volessi sapere tutto quello! Come desidererei vedere, vedere fino ad arrivare oltre il cuore delle cose! Ma dove troverò quello maestro che possa insegnarmi la scienza totale dell'universo? Non deve avere tale libro.
Una voce che sembrava un sospiro o piuttosto la brezza che agita gli alberi, gli rispose: "Sì, esiste tale libro; e tu l'hai."
Il giovane si allarmò. Rapidamente si alzò dal suo sedile e guardò all'indietro non vedendo più che un bianco manto che spariva nella penombra dalla stanza.
Mantenne il suo segreto. L'istinto gli diceva che non doveva rivelare quelle sensazioni interne e la sua visione.
Dopo un lungo periodo il suo istruttore astrale ritornò verso lui. Le visite diventarono più frequenti; il Maestro di bianchi paramenti aveva insegnato al giovanotto arabo a leggere nel libro di tutte le scienze, nel suo cuore. Per quel motivo Averroè fu celebre in tutte le arti ed in tutte le scienze.
A quel tempo Yusuf, un principe piuttosto malinconico e piuttosto artista, che amava circondarsi non solo di una corte lussuosa e di belle baiadere, ma anche di uomini saggi e scelti, contrasse un male che nessuno poteva curare. Fu allora quando raccomandarono un giovane medico che faceva veri miracoli e che i cristiani abitanti di Cordova tacciavano di stregone. Fece portare ad Averroè al palazzo e man mano che stava curando il suo corpo, continuava a risanare anche la sua mente. Tanto affetto riscosse al suo medico che lo fece medico ufficiale della corte.
Da quello tempo la fama di Averroè fu straordinaria. Rispondeva alle domande del principe con opuscoli scritti, alcuni dei quali, sebbene avariati, arrivarono fino ad oggi.
Spiegò meravigliosamente il sistema mentale di Avicenna. Divise la mente intuitiva, razionale ed istintiva, anche in parti, sotto i nomi di superiore, mezza ed inferiore.
Ma tanta saggezza, tanta chiarezza, non poteva rimanere da suscitare nemici ed avversari. Gli odi, i rancori e l'inferiorità di alcuni formarono un vero gruppo dei suoi nemici.
Almanzor che succede a Yusuf, nel Califfato di Cordova, si lasciò portare per i suoi detrattori. Proibì nella corte lo studio della filosofia e confinò a Averroè a Lucena.
Nella solitudine e nella pace del suo nuovo ritiro, Averroè raddrizzò tutti i suoi sforzi verso il risultato della vita perfetta e come molti discepoli gli avevano seguito, istituì una comunità di Sufis diretto per gli Iniziato del Fuoco che fu seme di una poderosa setta mistica che inondò dopo a tutti i paesi maomettani.
Si metteva in meditazione al tramonto ed il sole illuminava la sua spalla all'alba.
Fu allora che ebbe la visione beatifica dell'Unica Verità e comprese che tutte le religioni erano un aspetto della stessa, come lo testimonia nel suo libro intitolato “I Tre Mondi Superiori”. Compose, anche allora, il commento “Saggio della Febbre”, scritto per Galeno. Almanzor rimase nell'errore per breve tempo, poiché dopo ponderare la situazione, condannò ai nemici del santo maschio e lo fece ritornare dell'esilio, nominandolo Cadì di Siviglia.
Averroè passò gli ultimi anni della sua vita nello studio delle sue scienze favorite, nell'esercizio della medicina e nell'adempimento del suo carico.
In un viaggio che realizzò al Marocco in 1198, un'altra volta, mentre era malato, gli fu apparso il suo caro maestro. Questa volta non per istruzione bensì per dargli la mano ed accompagnarlo nel gran passo.
Mentre Averroè moriva, le ignee luci del crepuscolo scacciavano i ricordi delle sofferenze terrestri coll'ultimo splendore della Suprema Iniziazione.
Insegnamento 6: L'Aristotelismo di Maimonide
Maimonide, Rabi Mosè ben Maimon, nacque a Cordova dalla Spagna il 30 di marzo di 1135.
Il suo primo Maestro fu discepolo del gran filosofo Ibn Badra ed erano i suoi compagni di studi il Gran Visir Abu Bevier ed il figlio del celebre astronomo di Siviglia Abu Majmad Drabar.
Maimonide introduce l'Aristotelismo tra i saggi ebrei e così è possibile adattare la cultura greca al mondo religioso. Indubbiamente apre il cammino affinché i cristiani realizzino con San Tommaso d’Aquino la gran opera della conoscenza aristotelica adattata al dogma cristiano.
Nell'anno 1148 deve fuggire dalla sua città natale, presa per gli almohadi, e di lì cominciarono le sue lunghe peregrinazioni.
A 23 anni scriveva già un commento sulla Mischne. Visse in Jez nel Nord dell'Africa e lottò affinché gli ebrei non abbandonassero la religione dei suoi maggiori.
La sua attività nel campo della medicina fu tanto conosciuta che Ricardo Cuore di Leone gli scrisse invitandolo ad andare in Inghilterra.
Morì a 70 anni il 13 di dicembre di 1204.
In realtà, se giudichiamo l'opera di Maimonide escludendo solamente alcuni dei suoi lavori sull'arte di curare, tutta ella è esoterica. Non è occulto, per caso, lo studio dell'anima, le sue virtù ed i suoi vizi, i suoi poteri e le sue debolezze, le malattie che può soffrire ed i rimedi prescrittibili?
Non è esoterico lo studio della Provvidenza e la sua forma di manifestarsi sugli esseri e le cose?
E che cosa dire del minuzioso e limpido ragionamento sull’esistenza di Dio?
Nonostante nell'opera di Don Mosè ben Maimon si rivelano due aspetti: l'esoterico e l'esoterico.
Il primo si percepisce specialmente nella Mischne Torah, compendio di legge orale, trasmessa di generazione in generazione fino ad egli, e codice classificatore del contenuto giuridico disperso nei due Talmuds e negli scritti degli studiosi successori dei rabbini, fino alla sua epoca.
L'altro aspetto si trova nella profondità del vigoroso ragionamento che Maimonide espone nella sua “Guida" degli Sviati, vero arcano del suo sistema, fatto della filosofia ellenica ed araba, e del profetismo biblico.
Era nel secolo XII. Lungo tempo aveva trascorso già da quando gli ebrei fossero sloggiati della Palestina e disseminati per il mondo.
Una gran comunità si era stabilita in Spagna, un'altra nel Nord dell'Africa ed Asia Minore. Alcune si erano addentrate in Francia, estendendosi verso il Nord dell'Europa.
Le collettività ebree della Spagna si trovavano vincolate colla Giudea e Babilonia dove funzionavano i grandi centri religiosi e spirituali; ma erano vittime di persecuzioni e li obbligavano ad emigrare continuamente; questo faceva che si disperdessero ed allontanassero dal foco che li manteneva unite per il monoteismo della sua religione, la sua fede nella venuta del Messia e le prescrizioni della Torah.
Era necessario, allora, che un gran spirito concentrasse nel suo contorno l'angoscioso sguardo del paese; e non solamente quello spirito doveva avere una privilegiata intelligenza ma anche un'intensa fede in Geova ed il suo profeta massimo, perché la sua missione consisterebbe, oltre ad unire alla famiglia ebraica nei postulati della sua religione, in rinnovare interamente il giudaismo, infondendogli nuove e più razionali convinzioni che l'abilitassero alla lotta. Per ciò dovrà dare alla religione ebrea un contenuto scientifico-filosofico che fino allora non aveva in una forma globale ed organica, bensì disperso nelle elucubrazioni dei talmudisti e le polemiche dei tanaim e dei rabbini. In una parola: uno spirito capace di abbracciare simile opera dovrà essere un Iniziato come Maimonide.
Ma la sua opera non è solamente ebrea. Ella appartiene a tutto il genere umano. Si spiega così la sua influenza nella filosofia ebrea dei secoli XIII e seguenti, le sue orme nella scolastica cristiana ed anche in alcune delle più alte manifestazioni della filosofia moderna. Forse il suo viso esoterico si trova in quella parte della sua opera che, uscendo dal limite della religione, ha abbracciato proporzioni molto maggiori e solo è potuto essere compresa dai suoi discepoli, o per gli esseri avvezzati nelle conoscenze esoteriche.
Il fondamento del sistema di Maimonide non è originale di lui ma fu preso di Aristotele, a chi conobbe attraverso i filosofi arabi, e seguì in parte, separandosi in altre in quello che contraddiceva il dogma o le rivelazioni della legge mosaica.
Di lì il suo razionalismo, la sua profonda logica, il suo cientificismo tanto meravigliosamente applicato allo studio della Torah, del Talmud e della tradizione orale.
Ma il merito di Maimonide non consiste precisamente nell'interpretazione della filosofia aristotelica né nell'applicazione del suo sistema allo studio del giudaismo. Il suo valore risiede nella conseguenza morale che trovò nelle premesse aristoteliche, alle quali associò un'idea di origine araba, esagerando tutte fino al massimo.
Tutti i corpi che si trovano sotto al cielo sono composti di materia e forma. La “forma naturale”, è l'essenza delle cose, per quello la cosa “è quello che è” e si distingue delle altre che non sono della sua specie. “Non vedi mai la materia senza la forma e la forma senza la materia, ma l'uomo col suo intelletto distingue i due elementi di ogni corpo esistente e sa che è composto di materia e forma”.
La materia è di tale natura che la forma non rimane costantemente in lei ma continuamente si spoglia di una forma ed assume un'altra.
L'anima di ogni cosa è la sua forma ed il corpo è la materia colla quale questa forma si rivesti. Pertanto, quando il corpo che sta formato degli elementi si disgrega, l'anima perisce poiché esiste solo insieme al corpo, e non ha esistenza permanente più che nella specie al paio delle altre forme.
L'anima è una, ma sviluppa multiple attività, comunemente denominate parti dell'anima ma che non sono tali perché l'anima è una. In tale senso, le parti dell'anima sono cinque: la nutritiva, la sensitiva, l'immaginativa, l'appetitiva e l'intellettiva. Le prime quattro sono comuni all'uomo e le altre specie di animali per quanto ogni specie di animale ha un'anima. La quinta è esclusiva dell'uomo.
Per l’esposto, oggi solo esiste una differenza tra l'anima individuale umana e le anime degli animali, ed ella consiste in che la prima è più ricca, possiede l'intelletto; ma nella sua essenza tanto una quanto l'altra, sono forme aderenti alla materia con la quale periscono quando anche si disintegra la parte intellettiva.
Se Maimonide si fosse trattenuto nelle idee aristoteliche precedentemente enunciate, non avrebbe dato al mondo il suo gran sistema etico, la sua nuova tavola di valori morali. Ma egli aveva preso degli arabi un'intenzione i cui conseguenze ebbero molto oltre quello che i suoi stessi autori supposero. Questa consisteva nella concezione dell'intelletto in potenza o primordiale, l'intelletto in atto o acquisito e l'intelletto separato.
L'uomo che nasce ha una parte intellettiva, la parte intellettiva dell'anima che perisce in uno col corpo. Quella forza è una predisposizione per la quale l’uomo è capace di apprendere le cose intelligibili. Si deteriora, come si è detto, se si conserva nel suo stato di predisposizione, senza tradursi in atto. Ma se l'uomo l'usa nella comprensione delle cose intelligibili, allora l'intelletto passa della potenza all'atto ed acquisisce un'esistenza propria, eternamente permanente, come quella percezione che ha raccolto e “che fa una sola parte con lui”. Abbiamo allora l'intelletto primordiale che è energia nel corpo e l'intelletto acquisito che non è forza corporea e pertanto non soffre con questo, ma è eterno, come gli “intelletti separati” del mondo superiore.
Se la forma naturale è la sostanza essenziale per la quale ogni essere è quello che è e si distingue degli altri, l'intelletto acquisito che dà all'essere che lo possiede un'esistenza eterna, è la sostanza dell'essere che lo è riuscito, è la sua forma vera. La forma comune a tutti gli esseri è l'anima soggetta ai patimenti del corpo, l'anima della nascita. L'anima dell'essere che possiede l'intelletto acquisito non è già più che una specie di materia e la sua essenziale forma è la conoscenza supplementaria, la forma dell'anima.
Maimonide, seguendo gli arabi, comincia a distinguere nel genere umane due specie, colle seguenti conclusioni: l'uomo si distingue degli animali poiché ha una forma particolare, mentre il carattere della sua forma è analogo a quello della forma delle altre specie di animali, che tutte finiscono nell'individuo, mentre la forma particolare di quello che possiede l'intelletto acquisito ha un carattere speciale: che vive eternamente, ancora separato della materia.
Inoltre Maimonide delimita il contenuto ed il modo dell'intelligenza mediante la quale l'uomo arriva all'intelletto acquisito.
Se la comprensione degli intelligibili e la formazione tra l'intelletto ed essi, di una sola unità porta all'intelletto della potenza all'atto e fa eterno all'essere, gli intelligibili devono contenere oggetti esistenti in atto e di un'estensione eterna. Esclude allora Maimonide del complesso degli intelligibili, le scienze astratte che non spiegano cose esistenti, come la logica e la matematica, e le scienze che insegnano quello che non esiste, bensì quello che deve fare per raggiungere certi obiettivi, come l'etica e l'estetica, così come la conoscenza delle forme individuali che sono di una durata passeggera poiché aderiscono alla materia.
Gli intelligibili il cui conoscenza conduce all'intelletto in atto, sono quegli il cui contenuto è la realtà vera ed eterna, come le forme delle specie, le sostanze celesti e le forme separate, Dio e gli angeli, che sono eterni.
Maimonide stabilisce sul’modo dell'intelligenza che l'uomo arriva all'intelligenza delle cose mediante l'atto dell'intelletto stesso, per mezzo della ragione e non per atti di fede solamente, perché mancherebbe precisamente la compenetrazione dell'intelletto colla cosa intelligibile.
Avendo presente quell'insegnato per Aristotele sulla forma e sulla materia, sull'adozione del senso della forma a quello dell'intelletto coi suoi differenti gradi e sull'opinione aristotelica che il fine prossimo di tutti gli esseri del mondo inferiore è l'uomo, Maimonide estrae le seguenti conclusioni morali:
Il fine dell'esistenza umana è produrre la cosa più perfetta che si possa produrre.
Questa entità perfetta è l'uomo che possiede l'intelletto acquisito.
Il massimo dovere morale è, dunque, che l'uomo riesca raggiungere l'obiettivo per il quale fu creato.
Il bene morale è il risultato di quello fine.
Un'azione è buona o cattiva poiché coopera o turba l'uomo nel suo sforzo di riuscire il fine della sua esistenza, questo è: la traduzione in atto del suo intelletto.
Tutte le azioni umane tendono solo a sostenere la resistenza affinché l'essere possa arrivare al compimento di quell'unica azione.
Ma, oltre al lavoro intellettuale necessario per la realizzazione del fine, è condizione sine-qua-non il perfezionamento morale. In modo che nella scala delle buone azioni si segnano due direzioni: la prima verso la cosa speculativa; l'altra verso la cosa pratica, l'azione. Nella prima parte hanno importanza gli studi delle scienze indispensabili per la conoscenza del mondo; nell'aspetto pratico quelle opere umane che conducono al perfezionamento morale. Le virtù non sono dunque gli estremi di alcuni degli aspetti enumerati bensì il cammino mezzo che finalmente l'avvicina.
Maimonide ha introdotto nella sua etica l'elemento sociale.
Se il genere umano può dividersi in due specie, quella dell'intelletto in potenza ed intelletto in atto, e se la seconda specie si forma mediante una progressiva ascensione, lunghissima e difficoltosa, propria dei pochissimi, quale è il fine dell'esistenza della maggior parte dell'umanità che rimane in stato di intelletto in potenza? Non si può essere attribuire alla natura sperimentazioni malriuscite, ed osservando l'armonia ed ordine che regnano in lei, dovemmo ammettere un fine nell’esistenza della maggioranza. E Maimonide trova il fine di quella maggioranza nella scala evolutiva che conduce all'esistenza perfetta; scala che è anche mezzo per la continuità dell'uomo dopo che egli lo sia. Quegli esseri in potenza esistono per servire al perfetto nelle multiple attività che deve sviluppare e per formare la “società per i saggi” affinché non siano soli.
In modo che mentre nella minoranza scelta si concreta la forma più perfetta, la maggioranza implica lo strumento per la creazione delle condizioni necessarie per l'esistenza di quella minoranza.
Stabilisci così un criterio morale più ampio e più fattibile di essere applicato che l'anteriormente esposto, più popolare: un criterio sociale.
Tutto quello utile alla società nel motivo della sua esistenza o della sua missione è ben morale; tutto quello nocivo è male. A questo criterio non possono sottrarsi né la maggioranza né la minoranza. La maggioranza perché la sua esistenza non ha fine alcuno fuori della partecipazione nell'opera sociale il cui oggetto si è stabilito. E la minoranza perché deve proteggere il miglioramento sociale, poiché quanto più perfetta é la società, tanto più frequente deve essere l'emancipazione individuale dell'intelletto in atto ed in proporzioni maggiori.
Tutte le attività umane che contribuiscono al perfezionamento sociale hanno importanza morale poiché aiutano a creare l'ambiente necessario affinché possa attualizzarsi una forma più perfetta. La società sta tra le due “specie” di uomini il cui allacciamento costituisce.
Queste conclusioni permisero a Maimonide di avvicinarsi razionalmente all'antica concezione ebraica che attribuiva alla vita universale il fine della vita particolare.
Insegnamento 7: Innocenzo III
Innocenzo III, insegnato per le lotte delle investiture contro le quali tanto aveva combattuto Gregorio VII, collocò tutto il potere del pontificato romano nell’aspetto giuridico assolutista.
Nell'anno 1198 salì ad occupare la sedia di San Pedro l'uomo della nobile famiglia di Signa nel fiore dell'età, chi sotto il nome da Innocenzo III doveva lottare con incontrastabile valore contro tutti i nemici della giustizia e della Chiesa e dare al mondo il modello più finito di un sovrano Pontefice, del vero re Sacerdote Iniziato, il prototipo del Vicario di Gesù Cristo.
Era cortese e benevolente nelle sue maniere. Dotato di una presenza e qualità fisiche poco comuni si dice di lui che era di viso perfetto e di figura squisita. Fiducioso ed in estremo tenero nelle sue affezioni, generoso quale nessuno nelle sue fondazioni ed elemosine, grande e profondo giureconsulto quale conveniva esserlo al giudice senza appello della cristianità, oratore eloquente e fecondo, scrittore ascetico e saggio, geloso protettore delle scienze e studi religiosi, severo guardiano del mantenimento delle leggi della Chiesa e della sua disciplina, possedeva inoltre tutte le qualità capaci di illustrare la sua memoria di avergli toccato governare la Chiesa in epoche tranquille e facili, o se il suo governo avesse potuto adattarsi a cura delle cose spirituali. Ma a lui era riservata un'altra missione.
Prima di ascendere al trono sacerdotale, aveva compreso e dato anche ad intendere i suoi scritti, l'oggetto e destino del pontificato romano. Questo non doveva servire solamente alla salvazione delle anime, bensì occuparsi, anche, nel buon governo della società cristiana. Tuttavia, pieno di sfiducia di sé stesso, non appena fu scelto si diresse a tutti i sacerdoti dell'orbe cattolico chiedendoli con insistenza discorsi speciali per raggiungere di Dio che l'illuminasse e confortasse. Dio sentì queste preghiere generali dispensandogli tutti gli aiuti necessari per continuare e portare a termine la grande opera di Gregorio VII, della Sovranità Spirituale di Roma.
Ma al proprio tempo che difendeva questo primato, la costituzione dell'Europa di quell'epoca gli conferiva la funzione gloriosa di guardiano di tutti gli interessi dei paesi, di difesa di tutti i suoi diritti e vigilante del compimento di tutti i suoi doveri.
Durante i diciotto anni del suo pontificato si mantenne sempre all'altezza di missione tanto elevata e vasta.
Minacciato ed attaccato senza tregua per i suoi sudditi immediati, gli abitanti turbolenti di Roma, per quel motivo non smetteva di abbracciare col suo sguardo la Chiesa tutta ed il mondo cristiano con imperturbabile calma, con permanente e minuzioso sollecito, senza che niente scappasse dai suoi occhi di padre e di giudice.
Dell'Islanda a Sicilia, del Portogallo ad Armena, non si infrangeva una legge ecclesiastica che non fosse per lui al punto risarcita e restaurata; non ci fu ingiuria contro il debole che non riparasse; garanzia attaccata che non proteggesse. Tutta la cristianità non fu ai suoi occhi un'altra cosa che una maestosa unità, un solo regno senza frontiere interne né distinzione di razze: egli fu il difensore intrepido esternamente ed il giudice inesorabile ed incorruttibile internamente.
Rianimando l'intiepidito ardore delle Crociate li difese dei nemici esterni. Per quel motivo fu visto entusiasmato per i combattimenti in favore della Croce, lotte gloriose che infiammarono il cuore dei romani pontefici, da Gregorio VII fino a Pio II che morì Crociato.
I Papi erano allora il faro di dove irradiava l'ardore sacro delle nazioni cristiane. I suoi occhi erano incessantemente fissi nei pericoli che minacciavano all'Europa e, mentre Innocenzo usava il suo sforzo in comandare tutti gli anni un esercito contro i saraceni vincitori in Oriente, nel Nord propagava la fede tra i popoli schiavi e sarmati, e nell'Occidente predicava ai re della Spagna l'unione e la concordia, esortandoli a fare contro i mori uno sforzo decisivo, predicendo le sue miracolose vittorie contro la Mezza Luna.
Senza altre armi che la forza della persuasione e l'autorità di un gran carattere, ridusse all'unità cattolica ai più appartati regni come Armena e Bulgaria che, vincitori degli eserciti latini, non dubitarono di sottomettersi ascoltando la voce di Innocenzo.
Il suo infaticabile ed ardente zelo per la verità non lo toglieva essere tollerante in alto grado colle persone. Proteggeva agli ebrei contro le esazioni dei principi ed il cieco furore dei popoli, attestazione vivente della verità cristiana, imitando in tutto questo a tutti i suoi predecessori senza eccezione. In favore della pace e della salvazione delle anime manteneva corrispondenza coi principi musulmani. Mentre lottava con instancabile costanza e rara perspicacia contro le mille eresie che germogliando ovunque minacciavano abbattere i fondamenti dell'ordine sociale e morale dell'Universo intero, non cessava di inculcare ai cattolici vincitori, irritati, ed ancora agli stessi vescovi, principi di moderazione e clemenza.
È che dopo identificare la sua vita colla religione e colla giustizia, queste erano tutti per lui. L'amore ardente per la giustizia infiammava la sua anima di tale forma che non rifletteva sul rango delle persone, né sugli ostacoli o contrattempi; quando il diritto figurava in una contesa, per niente prendeva in considerazione i rovesci né la buona fortuna. Dolce e misericordioso coi deboli ed i vinti, inflessibile coi superbi e poderosi. Da tutte le parti e sempre, protettivo dell'oppresso, del debole e dell'equità contro la forza trionfante ed ingiusta. Per quel motivo difese con nobile accanimento la santità del laccio coniugale come la chiave dell’arcata sociale e della vita cristiana. La moglie oltraggiata non si rifugiò mai in vano alla sua mediazione poderosa. Il mondo ammirato lo vide lottare per spazio di quindici anni contro il suo amico ed alleato Filippo Augusto difendendo i diritti di quella sfortunata Ingerburge, venuta della Danimarca per essere il ludibrio ed oggetto dei disprezzi di questo Principe, sola, prigioniera, abbandonata di tutti in mezzo di una terra strana, eccetto del pontefice che seppe finalmente restituirla nel trono di suo marito tra gli applausi del paese che si considerava felice di vedere nel mondo una giustizia uguale per tutti. Uscì anche trionfante nella difesa della regina Maria dell'Aragona quando arrivò a servire da carico ad un marito libertino; e della Regina Adelaide di Bohemia a chi suo marito voleva ripudiare per contrarre un'altra unione più vantaggiosa e condannata già per un Concilio.
Lo stesso spirito di giustizia era quello che spingeva a vegliare con paterna attenzione fino a più remoti paesi per i diritti e titoli legittimi degli eredi delle corone e per la fortuna di più di un regio orfano.
Seppe mantenere nel suo diritto e patrimonio ai principi della Norvegia, della Polonia ed Armena (1199); agli infanti del Portogallo, al giovane re Ladislao dell'Ungheria e fino ai figli dei nemici della Chiesa come Jaime dell'Aragona il cui padre morisse nelle file degli eretici e che essendo caduto prigioniero dall'esercito cattolico, fosse messo in libertà per ordine di Innocenzo; Federico II, unico erede della razza imperiale di Hohenstaufen, il rivale più temibile per la Santa Sede, ma che messo basso la guardia di Innocenzo durante la sua minoranza, è educato, istruita e protetto per lui, e mantenuto nel suo patrimonio con l'affetto e zelo, non già di un tutore bensì di un padre.
Potrebbe causare già ammirazione che in un'epoca in cui la fede si guardava come la base di tutti i troni e, quando la giustizia personificata di tale maniera si sedeva nella cattedra di Pietro, tentarono i re di unirsi ad essa coi vincoli più forti? Sembrerà strano che il coraggioso Pedro dell'Aragona non trovi per la nascente indipendenza della sua corona migliore garanzia che attraversare i mari per deporla ai piedi di Innocenzo e riceverla della sua mano come un vassallo? Che John dell'Inghilterra, perseguito per la giusta indignazione del popolo, si proclami anche vassallo di quella Chiesa a chi egli aveva vessato tanto crudelmente, sicuro di trovare in essa l'asilo ed il perdono che gli uomini gli negavano? Che, oltre ai regni menzionati, quelli di Navarra, Portogallo, Scozia, Ungheria e Danimarca si onorassero di appartenere in qualche modo alla Santa Sede per mezzo di un vincolo di protezione interamente speciale?
Nessuno ignorava che per Innocenzo il diritto dei re alla Chiesa era tanto sacro quanto quelli della Chiesa ad essi. Il culto che tributava all'equità andava unito ad un'elevata e previdente politica, imitando in questo ai suoi illustri predecessori.
Per quel motivo opporsi all'incorporazione dell'impero per eredità nella casa di Suabia, sostenendo la libertà delle elezioni in Germania, fu come salvò a questo nobile paese della centralizzazione monarchica che alterando la sua natura, avrebbe soffocato tutti i germi della prodigiosa fecondità intellettuale che giustamente blasona.
Così, restaurando e difendendo con infaticabile costanza l'autorità temporale della Santa Sede assicurò l'indipendenza dell'Italia non meno che quella della Chiesa. Col suo esempio ed i suoi precetti forma tutta una generazione di pontefici altrettanto fedeli a questa indipendenza e degni ausiliari, come Stefano Langton in Inghilterra, Enrico di Gnesen in Polonia, Rodrigo di Toledo in Spagna, e Foulquet di Tolosa in mezzo agli eretici; o degni di morire martiri di questa causa sacra come San Pietro Parentizio e Pierre di Castelnau, morti ambedue in mani degli eretici; il primo ad Oviedo in 1199 ed il secondo in Languedoc, in 1209.
La sua gloriosa vita finisce con quello celebre Concilio Lateranense (1215-1216) che convocò e presidiò. La sua opera spirituale più grande fu presentare, all'orbe cristiano, le due grandi istituzioni od ordini religiosi di San Domenico e San Francesco che dovevano infondergli una nuova vita e che Innocenzo III ebbe la gloria di vedere nascere, entrambe, durante il suo Pontificato.
Insegnamento 8: Ermanno di Salza e l'Ordine Teutonica
Alla fine del secolo X e principi dell’XI, nell'epoca che si intrapresero le prime crociate per la conquista della Terra Santa per la Cristianità, come risultato ed effetto delle stesse e molto specialmente per la carenza di previsioni con che queste si effettuarono, si provocò un quadro saliente dentro quell'epoca costituito per la quantità di malati, derelitti e poveri che, carenti di protezione, pullulavano per Gerusalemme ed altre città.
Le malattie proprie di Oriente ed i feriti carenti di attenzione costituivano una fonte propizia per lo sviluppo delle infezioni, pesti ed altri danni che, quale pietra di tocco, misero in commozione i sentimenti umanitari di certe persone che non misurarono sforzi di ogni indole per alleviare questa critica situazione dei suoi pari.
Di lì nacquero le Ordine Religioso-militari che tanta importanza ebbe nel Medio Evo e che sotto le sue insegne guerriere e religiose svolsero, in realtà, una profonda missione sociale.
Nell'anno 1128 un tedesco chiamato Wuldpott fondò colla sua moglie un ospedale nella città di Gerusalemme per la protezione di tutti i pellegrini di origine tedesca, come così pure, per provvedere le sue più importanti necessità. Annesso a detto ospedale si era installato un oratorio dedicato alla Vergine Maria. Altri tedeschi apportarono il suo capitale per lo sviluppo di tanta nobile causa e consolidarono questa Istituzione che chiamarono Fratelli di Santa Maria.
Nell'anno 1190, dopo l’assedio alla città di Tiro, un gruppo di cittadini tedeschi, originari delle città di Bremen e Lübeck, colle vele delle sue imbarcazioni alzò uno spazioso padiglione per i feriti di lingua tedesca. Data la similitudine di fini che a questi guidava coi fondatori dell'ospedale menzionato nel paragrafo precedente, si associarono agli stessi. Furono questi, secondo diverse fonti, le vere origini dell'Ordine Militare-religiosa riferita.
Sebbene Ermanno di Salza non fosse il fondatore diretto dell'Ordine Teutonica, tuttavia la sua maggiore lucentezza ed il suo vero senso spirituale si devono a lui. Vivendo nell'Oriente coi suoi fratelli di religione conobbe ad alcuni arabi dotti che l'illustrarono nell'antica scienza Universale. Riconobbero questi in lui ad un essere straordinario e pensarono di iniziarlo nella sua scienza. Per quel motivo fu portato all’Hoggard ed iniziato lì negli Antichi Misteri.
Comprese, Ermanno di Salza che la vera saggezza è conservare il Sacro Sepolcro; non solo il sepolcro materiale di Gesù, bensì il Sepolcro Mistico di Cristo. Non è, per caso, il corpo dell'uomo il sepolcro materiale dove si nasconde il vivificante spirito?
Negli anni 1189-1191, durante l’assedio della città di San Giovanni d’Acri, Federico di Suabia, eresse questa associazione in Ordine Militare e la chiamò Casa Teutonica della Santissima Vergine di Gerusalemme, ma unicamente fu dopo conosciuta col nome di Ordine Teutonica, od Ordine dei Cavalieri Teutonici.
La costituzione di questa Ordine contò dal primo momento cogli auspici ed appoggio dei Grandi Signori dell'epoca e del Papa Clemente III, chi autorizzò la sua costituzione in base alla regola di San Agostino.
I costituenti di questa Ordine si chiamavano Fratelli. L’attenzione dei feriti e malati, e la protezione ai poveri, vedove ed orfani si reggevano in base a regole analoghe a quelle degli Ospitalari; in quanto alla parte ecclesiastica e militare, si adattavano alle rigide norme stabilite per i Templari, contando per ciò con tutti i privilegi propri che conferiva il Papa a quella classe di Ordini.
Usavano un manto bianco con una croce nera nel petto. Il colore bianco come simbolo di Fede e Purezza; la croce nel petto caratteristica dei crociati, ed il colore nero, ed anche l'arancione, costituivano i colori insegna dei tedeschi. In tempo di Ermanno di Salza si unì posteriormente la Croce di Oro di Gerusalemme.
Per entrare a questa Ordine era indispensabile essere Idalgo Tedesco, solo nei gradi inferiori si permetteva l'entrata a semplici cittadini, essere celibe ed impegnarsi a rinunciare a tutti i compromessi ed affetti che non fossero i provenienti dell'Ordine e dei suoi obblighi inerenti alla stessa; rinunciare a tutte le pretese sui beni dell'Ordine, quella che unicamente, ed in cambio di ciò, potrebbe facilitargli i più elementari mezzi di sussistenza ed una stanza. Inoltre dovevano compiere tutte le esigenze che si richiedevano per l'entrata nella generalità delle Ordine di Cavalleria simili alla stesse.
Il capo prendeva il nome di Gran Maestro dell'Ordine ed aveva diversi aiutanti con denominazioni caratteristiche di accordo alle funzioni attribuite.
Per la prima volta si ordinarono quaranta nobili tedeschi. Il Re di Gerusalemme donò la croce al primo, il Duca di Suabia; il secondo ed i trenta otto restanti li riceverono di altri signori di gran lignaggio. Nell'Ordine, come in quella della Malta, c'erano tre divisioni.
L'elezione del Gran Maestro si effettuava per il voto dei Cavalieri e le sue insegne gerarchiche erano un anello ed un sigillo, attributi dei quali si allontanava mai a non essere nel momento della morte in cui faceva consegna degli stessi al Cavaliere che egli designava Reggente dell'Ordine. Frattanto si sceglieva al nuovo Gran Maestro: questa designazione sua rimaneva tuttavia all’attesa dell'accettazione da parte dei Cavalieri.
Il Reggente convocava ad elezione del Gran Maestro per mezzo di un sistema di designazioni di aiutanti che permettevano la raccolta dei voti di tutti i Fratelli dell'Ordine; previamente all'elezione si leggevano le regole stabilite, tutti i Fratelli recitavano 15 volte la preghiera dominicale, e dunque davano di mangiare a 30 poveri. Quello che risultava eletto Gran Maestro si faceva carico del suo posto e riceveva l'anello ed il sigillo, investiture della sua autorità.
Germanno di Salza comprese l'inutilità che i suoi Cavalieri rimanessero inattivi a Gerusalemme, poiché molti altri ordini religiosi si erano stabiliti lì e costituiti in una colonia europea. Così fu che trasferì la sua Ordine a Venezia in attesa di potere dare una terra nel Nord dove stabilirla definitivamente. Questa occasione si presenta quando ottenne che il ribelle imperatore della Germania facesse la pace col Papato.
Cominciata l'attuazione dell'Ordine nella città di Venezia, aumentò sempre di più la sua radio di azione e la sua influenza che si faceva sempre di più poderosa. Era in certi casi quella che inclinava la bilancia tra le differenze che si suscitavano tra l'Imperatore ed il Papa.
Così Germanno di Salza, Gran Maestro dell'Ordine, risultò essere il vero arbitro delle differenze esposte tra il Papa Onorio III e l'Imperatore Federico II, e precisamente risolvendo le differenze mediante il suo intervento in tale forma che soddisfaceva entrambi i contendenti, potè l'Ordine acquisire nuovi possessi in Italia, Ungheria e Germania. Il Papa autorizzò al Gran Maestro aggregare all'ordine l'insegna della Gran Croce di Oro, e l'Imperatore le insegne dell'Aquila Imperiale.
Ad insistenza continua dei Papi, tanto l'Imperatore come diversi Ordini tentarono di espellere i barbari che dominavano ancora la Prussia. Ma a dispetto dei ripetuti tentativi per sloggiarli tutte esse fallirono. Fu l'intervento dell'Ordine Teutonica quella che nell'anno 1228, per istigazione del Papa Gregorio IX, intraprese la conquista della Prussia, sloggiando i barbari e riuscendo a stabilirsi. Diresse l'Ordine i destini politici della stessi fino a fini di 1618. Da questa conquista e colla direzione di distinti Grandi Maestri, furono aumentando sempre di più i suoi poteri, in forma tale che la sua influenza si faceva sentire non solo in Prussia ma anche in Ungheria, Polonia, Livonia ed i Ducati di Curlandia e Semigal.
L'Ordine vide rinforzati anche il suo esercito ed il suo potere per mezzo dell'incorporazione alla stessa dell'Ordine dei Fratelli della Milizia di Cristo che portavano delineata nel manto bianco la croce rossa ed una spada; questo originò che fosse chiamata l'Ordine di Porta-spade, istituita per il Vescovo Alberto di Alperdern in Livonia nell'anno 1204 e che per avere le stesse finalità, esercitò in questo senso il potere e le influenze che l'Ordine Teutonica aveva.
La storia dell'Ordine Teutonica, nei tre secoli che dominarono in Prussia, è quella di maggiore potere temporale della stessa, e tutta la storia dell'Europa Centrale ed Orientale è intimamente legata collo sviluppo in influenza di questa Ordine. Nell'anno 1253, essendo Gran Maestro Poppo von Osterna, costruirono la città di Köenigsberg, e nell'anno 1275 essendo Gran Maestro Hartman di Heldhugen che si stabilì a Venezia, fondarono la città di Marienburg.
Conseguente col riflusso prodotto in Europa per le lotte e derivazioni provenienti della Riforma della Chiesa Cattolica, l'Ordine ricevè la ripercussione di tali fatti nella sua vita pubblica e lì comincia l'epoca della perdita di gran parte del suo immenso potere temporale. Così nell'anno 1525, il suo Gran Maestre Alberto Margrave di Brandeburgo abbraccia la religione riformata di Lutero e si sposa colla figlia del re della Danimarca, e c’è uno scisma nell'Ordine intestata per il Gran Maestro Teútonico di Livonia Walter di Kletemberg che si emancipò del Gran Maestro ed in tale carattere fu riconosciuto da Carlos V. Mentre questo succedeva, molti Signori Cattolici si ritirarono disgustati ai suoi rispettivi castelli, dove in forma indipendente, per lungo tempo, ogni Signore, dentro il suo feudo, tentò di mantenere sussistenti le tradizioni dell'Ordine.
Nell'anno 1618 persero la Prussia e da allora l'Ordine smise di essere un'organizzazione di carattere politico. Una parte della stessa passò a stabilirsi nella Franconia, ma a dispetto della perdita dei suoi domini l'Ordine continuò ad esistere. E così nell'anno 1805, a causa del trattato di Presburgo, si stabilisce una clausola nella quale si concede all'Imperatore dell'Austria i titoli, diritti e redditi del Gran Maestro dell'Ordine.
Agli inizi del secolo XIX, Napoleone I l'abolì ufficialmente.
Per il tempo delle Crociate in Terra Santa, cessando il fervore della guerra, si occupavano preferibilmente nella difesa del paese e nello sviluppo crescente delle sue condizioni morali, adottando maniere colte. Nella pace, dopo avere confinato le atrocità superflue della guerra, ispiravano una fraternità comune tanto grande quanto notabile in quelli tempi di isolamento universale praticando, predicando ed insegnando il bene. Di questo insieme di impressioni ed attributi nel cui crogiolo si fondevano armoniosamente i suoi istinti bellici e religiosi, davano nascita ad un tipo ideale superiore, esaltando l'immaginazione ed offrendo nelle sue vite concezioni varie ed emozioni più pure ed elevate che quelle che si trovano nella vita comune.
Continuando colla similitudine esistente nella sua organizzazione colle Sette Persiane, avevano tre gradi: quello di Paggio, quello di Scudiero e quello di Cavaliere. I due primi corrispondevano al noviziato e quello di Cavaliere al quale gli offrivano la conoscenza dei misteri maggiori.
Le Prove alle quali era soggetto lo Scudiero, prima della sua promozione alla categoria di Cavaliere, consistevano in un digiuno rigoroso il giorno anteriore alla consacrazione, passando la notte bianca, che consisteva in essere tutta la notte inginocchiato al piede degli altari nell'oscurità più profonda.
Le armi e le insegne della sua nuova condizione hanno anche un senso più ampio di quello che giustifica il suo uso. Gli speroni che riceveva il Cavaliere per fare obbedire al suo cavallo a tutti i suoi desideri significavano la figura dei trasporti interni della sua anima che l'ecciterebbero ad amare profondamente a Dio ed a difendere la sua legge con valore ed interezza. La spada di doppio filo, simbolo della forza, significa che saprà umiliare il valore ed indurlo a dominare l'orgoglio che si crede inseparabile di lui, nella pratica virtuosa dell'umiltà e l'abnegazione per il prossimo.
Tutti i suoi atti erano diretti in principi che tendevano allo sviluppo delle condizioni superiori dell'essere umano il cui importanza e valore conoscevano ed apprezzavano.
Insegnamento 9: La Poesia Mistica da Jacopone da Todi
Si chiama asceta a Jacopone da Todi perché il suo cammino spirituale fu un costante sforzo per avvicinarsi a Dio, senza non arrivare mai mediante spirito interiore di sublime sacrificio allo stato mistico dell’Unione Divina.
Normalmente si confonde l'ascetica colla mistica; l'ascetica segnala nel candidato il suo sforzo, colla pratica degli esercizi purgativi ed amorosi e lo studio teorico sui diversi modi di raggiungere la perfezione, dai suoi principi fino ad arrivare alla contemplazione; mentre nella mistica egli penetra, mediante la pratica volitiva ed il rapimento estatico, fino alla Divina Unione.
Nell'ascetica c'è sforzo, lotta, perché c'è dualità; l'Essere e la sua Essenza Pura, l'uomo e Dio; mentre nella mistica c'è calma, quiete, perché c'è unità; la piccola chiama si è unita alla gran fiamma Divina, l'uomo è fuso come in Dio.
Gli asceti cristiani hanno avuto come basi durante il tragitto delle sue vite spirituali l'Imitazione di Cristo, ed i Francescani su questione scelsero l'Imitazione di Cristo povero e crocifisso, tanto che San Francesco d’Assisi fu chiamato Alter Christus e portò nel suo corpo i segni della Passione.
Ma Jacopone da Todi, che fu anche francescano, prese come centro delle sue aspirazioni e come esempio di amore e di dolori –la via ascetica– alla Vergine dei Dolori.
Stabat Mater dolorosa / Stava la Madre dolorosa
Juxta Crucem lachrymosa / e lacrimosa ai piedi della croce
Dum pendebat Filius. / della quale il suo Figlio appendeva.
È l'immagine femminile che l'ispira sempre, la sua vita, la sua musa, la sua santità.
Per l'immagine della donna idealizzata impara ad amare, è spinto a scrivere ed a creare, geme, dispera e si converte alla vita perfetta.
Da bambino ama alla sua madre su tutte le cose.
Nato Jacopone da Todi nell'anno 1228, sua madre è il centro di tutta la sua attenzione e del suo affetto.
È educato con ogni attenzione, secondo l'abitudine dei nobili di quelli tempi ed addestrato nell'arte del bene scrivere e guerreggiare.
La sua anima dura e virile si ribella alle discipline, per quel motivo solo trovava calma nell'amore della sua dolce madre. I suoi versi l'indicano:
Ben veglio che ama il figlio / Bene si vede che il figlio ama
Lo patre per natura / al a suo padre di natura
E Matre con dolzura / ma alla Madre gli dà
Tutto suo cuor el dona. / delicatamente tutto il suo cuore.
Suo padre era sicuro di sé, di carattere duro ed unicamente pensava di dare al suo figlio una vera educazione, cosa non facile in quelli tempi nei quali la lingua italiana non era ancora bene formata e si parlava nella penisola italiana il latino, il provenzale, ed i modismi locali; lo stesso Jacopone sarebbe un precursore, insieme a Bruneto, della lingua gentile che culminò con Dante, Petrarca e Boccaccio; inoltre quello che l'Italia fosse divisa in piccoli stati e sempre in guerra tra sé, richiedeva una gran perizia nell'arte della guerra, della strategia e la giurisprudenza. Benedetti non risparmiava al suo figlio né punizioni né disciplini per soffocare in lui gli impeti di ribellione, e la tendenza alle chimere proprie dell'infanzia e dell'adolescenza.
In quelli momenti di tormenta interiore trovava sempre una carezza e difesa nelle braccia di sua madre, ed a lei si attaccava con forti lacci di amore, sempre di più.
Da suo padre si allontanava giorno per giorno, arrivando fino all'odio. Egli stesso lo confessa:
Staba a pensare / Io pensava
Mio Patre morersi / che se il mio padre moriva
ed io più non staesse / io non sarei oramai legato
a questa brigata. /a questi obblighi.
Ma nonostante tutto, non potè evitare l'influenza né l'autorità del padre che l'obbligò a frequentare le scuole, a studiare con forza ed ad addottorarsi in leggi nell'Università di Bologna. E non per un giorno, per quaranta anni fu avvocato e procuratore nella sua patria dedicandosi con molta buona volontà alla sua professione.
Il ribelle era morto? Il focoso ragazzo era stato sostituito dall'uomo riposato? Non pensava egli già di abbandonare quello che tanto l'infastidiva prima?
Così sembra.
In 1267, Jacopone, già vicino ai quaranta anni si sposò con Vanna, figlia dei conti di Coldimiezzo; e tutto l'amore che aveva messo in sua madre lo trasportò alla sua moglie. Era questa giovane bella, buona e discreta, e portava con sé l’affasinamento che prometteva una felicità piena. Così confrontino 1267, Jacopone, già vicino ai quaranta anni si sposò con Vanna, figlia dei conti di Coldimiezzo; e tutto l'amore che aveva messo in sua madre il.
Jacopone seguì la sua adorazione all'Immagine Femminile in quella della sua moglie, avvicinandosi a lei con intera consacrazione e con una devozione tenera e sincera.
Ma nell'anno 1268, succedè una cosa piuttosto terribile. Gli abitanti da Todi davano una gran festa nella piazza maggiore; nel palco riservato alle dame, tra tutte, brillava la giovane sposa del poeta. Gli occhi di Jacopone, che stava tra quelli del giurato, ammiravano più la bellezza della sua Vanna che lo svolgimento del torneo.
Ma la visione e la festa sono interrotti all'improvviso per un rumore infernale, seguito di gran panico.
Il palco delle dame si è abbattuto ed il capriccioso destino non si è portato, tuttavia, più che una vittima: la moglie di Jacopone.
Mentre il dolore delle profonde ferite ed il desiderio di vivere danno espressione al viso di Vanna, egli espressa salvarla: la chiama con dolci nomi; supplica che non lo lasci, offre la sua vita per quella di lei. Ma, quando la serenità e l'abbandono della morte compongono di dignità il viso di lei, Jacopone sente nel suo petto la più nera disperazione.
Cuius animam gementem / Quell'anima che piangeva
Contristatam et dolentem / triste e dolorante
Pertransivit gladius / fu oltrepassata per una spada.
Si ricorderebbe di quello momento doloroso della sua vita mentre componeva la seconda strofa del suo “Stabat Mater”.
In quelle dolorose tenebre Jacopone si sentiva ferito di morte; ma la morte è vita e da quella terribile prova egli esce convertito per la nuova vita.
La sua conversione religiosa sveglia allo stesso la sua antica personalità che sembrava annichilita; sorge di nuovo il poeta, il ribelle, il sacro e, soprattutto, l'asceta.
L'uomo di Dio non si arrenderà oramai; qui comincia il suo cammino ascetico che non finirà bensì col fine della sua vita.
Il centro e fine del cammino ascetico di Jacopone da Todi è Maria, la Dolorosa.
Del soave amore alla madre, dell'appassionato amore alla sposa, passa all'amore della soave Madre di Dio. La Divina Madre trionfa in lui, dandolo come obietto della sua ricerca e del suo amore all'Immagine di Quella che il tempo non sgretola, né il vento sparge, né gli anni cambiano, né la morte tocca.
Il forte e virile cuore di Jacopone, la sua accentuata virilità, si piegano davanti alla Madre di Dio nel momento che esprime il Gran Dolore.
Quando parla di Dio non può ricordarlo bensì come giudice implacabile e giustiziere che misura presto l'uomo con bacchetta di ferro presto a scaricare la punizione sulla terra; se è verità che egli compose il “Dies Irae”, come qualche storiografo afferma, bene può vedersi il suo concetto religioso; quando parla di Gesù vedi solo in Lui al Gran Re, all'incomparabile Salvatore che redense gli uomini col suo sangue e colla sua morte nella Croce.
Ma quando parla di Maria, quando canta il suo dolore, si commuove, si soavizza, versa lacrime ed il suo animo si infiamma in un'onda incontenibile di compassione e tenerezza.
La Dolorosa è il suo centro ed egli va verso Gesù Crocifisso e verso la perfezione per mezzo delle lacrime della Madre.
Dietro Lei ha forze per aborrire al mondo ed alla sua vita passata, e è per Lei che fa penitenza e mortifica e distrugge al vecchio uomo.
Ella l'ispira l'ansia della rinuncia della sua volontà ed il desiderio veemente di cancellare i suoi peccati. Egli esplode di pentimento.
Quis est homo qui non fleret /Che uomo non piange
Matrem Christi se videret / Se vedi alla Madre di Cristo
In tanto supplizio? /Soffrendo tanto?
La conversione ed il Sacro Amore lo fanno poeta.
È opinione di molti che Jacopone cominciò a scrivere versi solo dopo la sua conversione; ma è di supporre che già da prima, sebbene di nascosto, scrivesse versi. Il poeta non si fa, nasce.
Le sue lodi, scritte in italiano, ed i suoi inni scritti in latino, ci dicono che uno scrittore di tale calibro non si potè fare in un giorno.
Il “Stabat Mater”, attribuito ad altri autori, adesso è riconosciuto come la sua opera.
Al principio della sua conversione Jacopone è disposto a fare una vita più perfetta. Il suo cammino ascetico consiste inizialmente in un gran odio ai peccati capitali, in una costante lotta, paura e mortificazione contro le tentazioni, per potere perseverare nei suoi propositi. Apparentemente quello è prima, ma internamente si sta effettuando un cambiamento completo.
Dai 40 a 50 anni cammina lentamente, come se temesse effettuare la gran rinunzia, ma avanza e comprende che il Foro, la vita comoda, gli amici, la sua città natale da Todi, sono tutti lacci che ostacolano la sua consacrazione totale a Dio.
Mostra desideri di farsi frate, ma i suoi amici lo dissuadono una ed un'altra volta; un uomo a 50 anni non può modellarsi oramai alla vita austera del chiostro; inoltre egli può fare molto bene stando nella vita secolare, scrivendo versi, compiendo i suoi doveri ed essendo esempio di vita religiosa.
Egli tituba e non sa che cosa decidere.
Teme che seguendo così perda inutilmente il tempo ed allo steso tempo lo spaventa una vita di tanto sacrificio.
In quelli giorni si parlava molto, nel centro dell'Italia, della conversione di Margherita da Cortona, chi da una vita cortigiana aveva passato alla Terza Ordine Terza di San Francisco e viveva tra i rigori della penitenza, l'estasi e le rivelazioni divine. Di tutte parti correvano a Cortona per vedere alla mistica nella sua umile cella.
Jacopone decide di andare a consultarla. Non dicevano che Gesù l’aveva parlato da una croce, chiamandola “povera peccatrice mia”?, e dopo l'aveva onorata coi titoli di “Figlia e sposa mia?
Chi migliore che ella poteva dirgli una parola di orientazione?
Come sempre, è una donna quella che guida i passi di Jacopone.
A Cortona va a sentir dalle labbra dell'estatica la conferma della sua vocazione religiosa.
In 1278 Jacopone da Todi entrò nell'Ordine dei Frati Minori, ma unicamente come laico, per spirito di umiltà.
Sotto il bigello di San Francisco egli riconosce sempre all'antico peccatore e come tale si tratta, disprezzandosi e desiderando il disprezzo di tutti.
Il suo cammino ascetico è arido e duro, senza speranza di riposo e di ricompense sulla terra.
In quello cammino deve trovare solamente spine, dolore, penitenze, staffilamento e rinunzie; per lui solamente tristezza, calice, fiele e lacrime della Passione gli saranno concessi.
Eia Mater, fons amoris / Oh Madre, fonte di amore
Mi sentire nimis doloris che io senta molto i tuoi dolori
Fac, ut tecum lugeam. / fa' che pianga con te.
Quando gli è concesso a Jacopone un po' di tregua alle sue terribili lotte e prove, l'unico riposo, l'unico bene che si permette è l'amore sanguinante della Croce, è arrivare a riprodurre nella sua mente, nel suo cuore e le sue carni le spade della Dolorosa, le piaghe di Cristo.
Sancta Mater, istud agas, / Fa Santa Madre
Crucifixi fige plgas / che le piaghe del crocifisso
Corde meo valide. / siano fissate per sempre nell mio cuore.
Niente di piaceri esterni né interni per lui. Respinge il diletto di arrivare ad una quiete perché vuole sforzarsi nella sua ascetica di dolore fino a che muoia: Donec ego vixero.
Tutto il diletto sia per lui nel cielo, colla sua Divina Madre, dopo la Morte, se Dio Giudice l'assolve dai suoi peccati.
Nel convento desidera vivere come semplice laico, esercitandosi nei più umili mestieri.
Ma non gli basta.
Vuole essere vilipeso, sdegnato e che lo considerino come ad un matto.
Vuole essere sempre coi più pochi, più umili, più stretti.
Il suo cammino ascetico è desolazione, per quel motivo siuni agli Spirituali. Gli Spirituali erano alcuni Francescani che desideravano vivere le regole ed abitudini primitive dell'Ordine, avere una vita rigida e non possedere assolutamente niente. Dirigeva loro il venerabile Pedro di Juan di Oliva ed ad essi si unì Jacopone da Todi. Ma desiderando fare vita più austera ed appartata si unì ai Francescani, chiamati Eremitani Celestini, così chiamati perché formando un gruppo indipendente dell'Ordine Conventuale, furono approvati dal Papa Celestino V in 1294.
Ma alla venuta di Bonifacio VIII questo gruppo fu sciolto per detto Papa.
Alcuni ritornarono ai francescani col Beato Corrado da Offida; ma altri si ribellarono apertamente, tra essi Frate Jacopone.
Il cammino do Jacopone già è definito; dovrà andare errante, il ribelle, sempre perseguito, sempre incalzato, sempre fuggendo; senza speranza di riposo.
Non era nemico di Bonifacio VIII come Papa, bensì come supposto usurpatore del Papato; si suppone più per spirito di cameratismo con quelli del suo Ordine di Eremiti abolita per credere davvero viziata l'elezione del Papa.
Neanche si vede che aspettava molto di Celestino V come Papa, poiché aveva scritto in una poesia sua:
Che farni, Pier dà Marrone / Che farai, Pier di Marrone
Sei venuto al paragone? / Ora che ti misero a prova?
Ed accade che in 1297 partecipi alla riunione di Lunghezza coi Colonna ed i suoi sostenitori, Deodato Rocci e Benedetto di Perussa, soscrivendo il manifesto di opposizione a Bonifacio VIII.
Nell'anno 1298 le milizie papali occupano la Palestina, forza dei Colonna dove stavano situati gli oppositori, e Jacopone è fatto prigioniero.
Per cinque lunghi anni rimane nella prigione e è solo liberato di lì il Natale di 1303, per Benedetto XI.
Tre anni gli rimangono di vita poiché finirà i suoi giorni il Natale di 1306.
Morì nel Convento delle Clarisse di Calazzone.
Un'altra volta, le buone sorelle, gli erano mostrate nell'ultima ora come unica difesa in questo povero mondo.
Dicono i suoi biografi che il suo cuore esplose per il desiderio veemente che aveva del cielo. Tale sentiero non poteva finire bensì con un incendio, un incendio di amore, che gli apriva le porte del cielo, della Divina Unione.
Insegnamento 10: Giovanni Pico della Mirandola
Una delle figure più discusse nel mondo letterario e filosofico è quella di Giovanni Pico della Mirandola. Nemmeno le luci del nascente e glorioso Rinascimento riuscirono a dissipare le tenebre medievali di soperchianza e superstizione che circondarono alla figura di questo uomo, perché egli fu, veramente, uno dei nessi principali tra l'età medievale che terminava e quella del Rinascimento.
Tutto quello che circondò la sua nascita fu di tetro ed invecchio aspetto, chi sa per quel motivo. Tale era il castello della Mirandola, colle sue appuntite torri, colle sue alte muraglie schiette, coi suoi scricchiolanti ponti levatoi, situato tra le oscure montagne della Toscana Centrale.
Nato di antica famiglia, di nobile stirpe, predestinata alla guerra e alle armi, questo fu l'ambiente che lo circondò da bambino. Ma succede un miracolo. Il bambino di blondi e lunghi capelli, di immensi occhi azzurri, di fronte ovale e femminile, risalta tra tutti. I duri guerrieri abituati alle bestemmie e lo schiamazzo, non osano aprire la bocca nella sua presenza.
La sua dolcezza si imposi, la sua modestia attrae, la sua bellezza fisica risplende come chiama portatrice di una luce interna. Tutta la cosa vecchia l'annoia: guerre, abitudini, modo di vivere. L’unica cosa vecchia che ama sono i libri; e come da una sorgente pura, germogliano delle labbra dal bambino, spontaneamente, le più belle poesie.
Nessuno può con lui; la sua dolcezza vince a tutti. Già suo padre è rassegnato a non farlo uomo di armi, né sacerdote, bensì a lasciarlo libero affinché segua le sue chimere.
E Epico non ha più di 10 anni; tuttavia già è tutta un'espressione nuova, un'immagine viva del Rinascimento al quale tanto apporterà.
A 14 anni sta già a Bologna discutendo temi di diritto canonico coi più anziani dottori, sconfiggendo agli scolastici e decantando la filosofia greca.
Ma è ancora più. A quella stessa età è laureato.
Ma, chi può mettere calma alla sua ansia di sapere? Il mondo è piccolo per lui; il tempo, breve.
Anno dopo anno, pellegrino del sapere, corre per tutte le università, conosce tutti i centri di studi ed assiste allora alle cattedre di tutti i saggi conosciuti. Sette anni dura questa peregrinazione.
Si dice che a diciotto anni sapeva già 22 lingue, e conosceva tutte le scienze ufficiali dell'epoca.
Dove può stanziarsi questo uomo rinascimentale, bensì a Firenze, culla della nuova era, vivaio di uomini di scienza, di arti e di lettere?
Lorenzo il Magnifico, duca di Firenze, ha un affettuoso affetto a questo saggio adolescente; non può staccarsi da lui. Non compone poesie, né li dà a pubblicità senza che questo li approvi. Nonostante le macchie che rovesciarono gli uomini sulle intimità di questi due amici, fu questa una delle più belle e durature amicizie che solo la morte potè separare; e per ben breve tempo.
Fu allora quando il giovane Pico pubblicò le sue novanta proposte denominate “Di Omni Re Scibili” che furono condannate dal Papa. Si proporsi con queste stimolare lo studio di tutte le questioni universali ed umane; ma fallì per l'intransigenza ecclesiastica.
L'opera più meravigliosa di Pico della Mirandola fu quella di collaborare con Marsilio Ficino, il gran filosofo platonico, per fare rinascere lo studio e l'amore ai filosofi greci e fondare la celebre Accademia Fiorentina.
Come era profondamente religioso e desiderava essere istruito sulla parte esoterica del cristianesimo, si relaziona con sacerdoti venerabili ed ha influenza sull’animo di Lorenzo de’ Medicis affinché Geronimo Savonarola possa ritornare a Firenze.
E Geronimo e Pico erano due tipi completamente distinti. Contrastava l'aspetto severo, duro ed apocalittico del frate, col bello, signorile e raffinato del poeta. Tuttavia, doveva avere in queste due anime un'unica aspirazione spirituale quando li unì tanta stretta intimità.
In quello tempo anche c'erano a Firenze alcuni Iniziati dei Fuoco amanti dell'astrologia, della metafisica e della cabala.
Pico non era persona di limitarsi ad un solo concetto. Conosceva queste persone e studiò con impegno le scienze nascoste; se avesse vissuto alcuni anni più, sicuramente avrebbe collaborato con essi nella fondazione dell'Ordine Segreta dei Fratres Lucis, istituita in 1498.
Egli già aveva finito la sua missione; la filosofia greca stava in auge, fermamente collocata. Per secoli e secoli non smetterebbero gli uomini di ammirarla e studiarla. Pico già poteva ritirarsi ai mondi superiori.
Lorenzo il Magnifico era morto nell'anno 1492 e l'altro gran amico, il poeta Angelo Poliziano, il 29 Settembre di 1494.
Il 17 novembre di quello stesso anno, contando solamente 31 anni di età, mentre Carlos VIII entrava nella città di Firenze con un poderoso esercito, questo Gran Iniziato abbandonava il piano terrestre.
Alcuni mesi prima la veggente savonaroliana, Camilla Rucellai, l'aveva predetto l'ora della morte ed egli, spaventato, aveva cercato di prendere l'abito dominicano; ma postergando il suo progetto di un giorno per altro non potè realizzarlo.
Tuttavia, nell'ultima ora, come il Poliziano, chiese al suo amico Savonarola essere sepolto con l'abito bianco e nero dell'Ordine dei Predicatori; questo lo promise, e dopo mantenne la sua promessa.
Sebbene non possa sapersi esattamente se Pico della Mirandola ebbe conoscenza della gran missione che gli assegnarono gli Iniziati del Fuoco sulla terra, la cosa certa è che la riconobbe istantaneamente nell'ora della sua morte perché, dal suo convento, mentre stava in preghiera, Camilla Rusellai vide l'anima di Pico della Mirandola che si alzava al cielo circundata per un'aura di fuoco.
Insegnamento 11: L'Umanista Tritemio
Tritemio appare negli albori del Rinascimento e fomenta l'aspetto scientifico del Rinascimento, trasformandosi in padre di grandi umanisti.
Nacque l’1 di febbraio di 1462 e morì il 13 di dicembre di 1518. Il suo vero cognome era Heidenberg, benché fosse conosciuto sotto quello di Tritemius (Giovanni), o Trittenheim (Germania), per il luogo della sua nascita.
A dispetto della sua condizione di nobile, la sua educazione fu molto trascurata, tanto che a 15 anni non sapeva ancora leggere né scrivere. Orfano a due anni, suo patrigno mise intoppi alla sua formazione educativa a tale punto che dovette ricorrere ad ore della notte ed in casa di un vicino, nascondendosi, per acquisire i primi rudimenti del sapere. Imparò così a leggere, scrivere, declinare e coniugare parole latine. Di questa maniera allo stesso modo che soddisfaceva le sue inclinazioni, rispettava le imposizioni di suo patrigno.
Non soddisfaceva questo tutte le sue ansie di sapere, e così determinò abbandonare la casa della sua madre, dirigendosi a Treveri ed altre città, e finalmente a Heidelberg, dove completò i suoi studi ed acquisì tutte le conoscenze che un uomo poteva possedere in quello tempo.
Poi pensò di ritornare alla casa materna, ma arrivando il 25 di gennaio di 1482 all'abbazia benedettina di Spanheim, una forte nevicata gli impedì di continuare il viaggio, incidente provvidenziale che egli approfittò per conoscere e studiare la vita di quelli monaci e dopo una settimana, incantato con quello modo di vivere decide rimanere e prese l'abito il 21 di novembre di quello stesso anno.
Poco tempo potè seguire la regolarità del semplice monaco, perché non tardò ad essere scelto abate a dispetto della sua gioventù ed al poco tempo di essere entrato all'Ordine.
Tritemio trovò al monastero in uno stato deplorevole; tanto nella cosa temporale come nella cosa spirituale ed il suo zelo intraprendente tentò in primo luogo di restaurare la cosa materiale dell'abbazia che già ritornava a uguagliare e superare la sua pristina prosperità dopo poco tempo; poi toccò il suo turno al compito più difficile ma più meritorio: la riforma interna e morale dei suoi monaci, cominciato per il compimento della regola conforme alla riforma di Bursfeld, e dopo la determinazione del lavoro rianimando gli studi sacri e profani.
Nelle conferenze ai suoi monaci li esortava senza cessare a leggere e scrivere copiando libri ed illuminando i titoli e lettere capitali; e grazie a questo, potè riunire una ricca collezione di libri nella sua biblioteca, arrivando a contare nell'anno 1502, 640 volumi ed alcuni anni più tardi più di 2.000 di ogni tipo e lingue, quando contava solo 48 volumi all'essere nominato Abate.
Lo stato fiorente a che arrivò con questa abbazia accrebbe la fama di Tritemio, e di tutte parti accorrevano a Spanheim per conoscerlo; principi, vescovi, saggi, tutti avevano interesse in consultarlo ed approfittarsi delle sue vaste e profonde conoscenze in qualunque genere di scienze ed arti.
A questa fama di virtù e saggezza non partecipavano tutti unanimemente. L'invidia di alcuni dei suoi monaci che non si conciliavano bene con la regolare osservanza, fu causa di molti dispiaceri e disgusti, arrivando ingiustamente ad essere chiamato malefico.
In 1505, trovandosi in Heidelberg nella corte di Felipe, Conte di Palatino del Rhin, arrivò la notizia che i suoi monaci si erano alzati contro di lui e l'avevano deposto del suo carico di Abate. Per potere accertarsi migliore di quello successo si ritirò a Colonia, dopo a Spira, ma le notizie che gli arrivavano non erano soddisfacenti; i monaci si mantenevano fermi nella sua risoluzione.
In considerazione di questo Tritemio rinunciò a ritornare alla sua abbazia dove aveva vissuto più di venti anni, sentendosi privato della sua casa di professione e della ricca biblioteca, riunita grazie ai suoi lavori ed insonnie, ritirandosi all'abbazia di Wurzburg che gli confidarono. Lì visse gli ultimi dieci anni della sua vita dandosi ai suoi studi favoriti, senza ascoltare le promesse di posti onorifici che molti gli offrivano.
Tritemio è stato oggetto di molti lavori ed ancora oggi eccita la curiosità di molti saggi. Inoltre i suoi lavori, ascetico monumento imperituro della vigorosa riforma di Bursfeld, le altre raccolte, per ragione dei suoi numerosi errori e contraddizioni che rinchiudono e del carattere superficiale a volte della sua composizione, hanno perso quasi tutto il suo valore scientifico, salvo per la seconda metà del secolo XV. Ha avuto, tuttavia, qualche scrittore come G. Mentz che ha tentato di difenderlo delle falsificazioni storiche che lo accusano, come l'avere inventato le fonti che servirono per la sua “Storia dai Franchi”, Magonza 1515, e gli “Annali dell'Abbazia di Hirsangia” che sono, rispettivamente, Hunibaldo e Meginfrido, i cui scritti erano già interamente sconosciuti nel secolo XVI. Tuttavia non è possibile convincersi dell'intera veracità di Tritemio davanti alle difficoltà che alzano i suoi procedimenti letterari, specialmente di alcune delle sue contraddizioni flagranti.
Le opere di storia letteraria sono più sicure.
Infine, Tritemio fu uno scrittore fecondo, come lo testimonia il numero dei suoi scritti, tra i quali alcuni furono accusati di avere carattere di negromante. La sua opera, a dispetto della critica posteriore che fu oggetto, compiè nella sua epoca la straordinaria missione di svegliare l'interesse per la scienza, trasformandosi in conseguenza, in vero precursore del rinascimento scientifico.
Insegnamento 12: Paracelso
Paracelso nacque in Einsiedeln, Svizzera, essendo suo padre medico prestigioso, chi diresse i suoi primi passi nella scienza, portandolo dopo a Carintia, dove imparò praticamente in miniere e fonderie le proprietà dei metalli che tanto utile gli furono come basi per lo studio metodizzato degli elementi terapeutici. Questa educazione obiettiva prima deve avere la sua parte quando dopo, già maturo, insegnava che “il progresso può fondarsi solo sull'esperienza e nelle congetture estratte dal’esperienza."
Passò dopo al Nord dell'Italia col fine di studiare la medicina. In questa decisione può darsi anche l'influenza dal padre, chi si troverebbe alla corrente dell'impulso rinascimentale sulle scienze cominciato nella penisola a causa della venuta dei saggi di Bisanzio, motivata per la caduta di Costantinopoli in mani di Mohamed II.
Paracelso percorse anche tutto il suolo tedesco per spazio di 10 anni e dopo due anni di riposo in Karuten, passò a Salisburg.
Paracelso aveva acquisito nei suoi multipli traslochi fama di mago e di scandaloso.
Queste esagerazioni sono spiegabili, come così le torte o intenzionate interpretazioni, considerando il livello culturale dell'epoca, tanto intollerante emettendo concetti. Ma dovrebbe sbattere con questi il carattere indipendente, altezzoso, aggressivo contro le autorità spirituali e temporali, di Teofrasto Paracelso, nel cui ritratto, dipinto per Holbein, può indovinarsi queste facoltà contemplando il suo profilo autoritario, il suo naso piuttosto prominente ed aquilino, il suo mento ben marcato in mandibole sviluppate, la sua bocca piuttosto fina, i suoi occhi guardando in lontananza come nell'atteggiamento dell'uomo che sa quello che fa e quello che dice.
Dettò i suoi scritti ai suoi discepoli in uno stilo che è miscuglio di teorie con chiare congetture ed intuizioni geniali.
Si pubblicarono: “Chirurgia Magna”, 1536, un Manuale dove si raccomanda l'uso di mercurio per la sifilide; Frankfurt, “Di Gradibus”, 1568; “Ufo der Bergsucht”, 1567. Nell'opera “Omnia” è un notevole capitolo: “De generatione stultorum”.
In essi e nelle sue polemiche appaiono delimitate le differenti parti costitutive dell'organismo, in spirituali e materiali. La vita procede di Dio che creò il principio vitale o Archeaus, contenuto in un veicolo invisibile o mumia che si identifica facilmente col doppio degli egiziani, e che pertanto ci rivela l’origine spiritualistica dei suoi insegnamenti.
Il materiale proviene dal fango primordiale o Iliaster che soffrendo trasformazioni rimane sostanzialmente formato per i tre elementi figurati colle parole simboliche di zolfo, mercurio e sale, significando con ciò le materie che hanno differente comportamento col fuoco. Ebbe l'idea di quello che egli chiamò segnature, cioè, che le malattie manifestate per certi sintomi potevano curarsi con vegetali che portassero in se stessi alcuni manifestazioni interpretate come simili. Così, l'itterizia doveva curarsi con succo di cavolo.
Questa idea è il germe di quello della “similia simbilibus curantur”, sulla quale Hahnemann, 4 secoli più tardi, edificò l'Omeopatia.
Mediante l'Astrologia dedusse il trattamento da tirare fuori del corpo alla mumia per mezzo di procedimenti magnetici, ed innestarlo nella pianta adeguata per ricevere l'influenza degli Astri. Di qui il nome di Corpo Astrale. La sua ammirazione per Ippocrate l'incamminò in un parallelismo in quanto all'osservazione strettamente scientifica, senza pregiudizi che oscurassero gli avanzamenti delle sperimentazioni e le sue conseguenze. Indubbiamente l'ispirava anche il pensiero ippocratico: “L’amore ai malati è l'origine dell'amore all'arte medicinale”. Per quel motivo diceva agli alchimisti: “Non devono cercare l'oro che è paglia vana, bensì le medicine che curano le malattie”.
Con questo pensiero si rivela il fondatore della Chimica. In detta attività emerge di tale modo che è visibile il suo soffio geniale indovinato già quando spezzava lance contro i maestri devoti, nella sua celebre bruciatura di Basilea.
Studiò le proprietà farmacologiche dell'oppio, laudano, piombo, zolfo, ferro, arsenico, solfato di rame e solfato di potassio (specificum purgans Parcelsi). Osserva i benefici delle terme di acque minerali, già consigliate per gli antichi germanici, analizza le acque e li raccomanda. Distingue l'allume del solfato ferroso e trova il ferro contenuto nell'acqua per mezzo dell'acido tartarico.
Popolarizzò le tinture ed estratti alcolici.
Studiò i calcoli biliari e renali, classificandoli come malattie tartarice, per precipitazione, come la formata in fondo delle botti di vino.
Inoltre intuisce genialmente il potere catalitico di alcuni corpi chimici facendo notare che influivano non per la quantità, bensì per la quintessenza.
Come clinico osserva e descrive magistralmente il cretinismo e le sue relazioni col gozzo endemico nel Tirolo, studiati durante i numerosi della sua vita nomade ma fruttuosa.
Come chirurgo fu abile. Le sue operazioni e considerazioni si trovano nella “Chirurgia Magna". Fu l'unico sostenitore dell'antisepsi.
In sintesi, Teofrasto Paracelso fu un uomo ben completo. Ci sono multipli aspetti eccellenti nel suo modo di fare.
La sua eterna ricerca della verità, alla quale perseguiva instancabilmente nelle sue investigazioni dentro sé stesso, in suoi simili e fuori, nelle visite innumerabili per tutto il panorama europeo, è geniale.
Seminò ostinato la parte di quella verità che arrivò alla sua conoscenza dimostrando generosità e visione profetica. Ma in quelli giorni suppone questa condotta una prodezza che almeno attrae la simpatia, e così dovette sembrare al paese con chi alternava ed a chi serviva, creandosi una fama leggendaria dopo la sua morte.
La sua modalità era l'accentuazione della sua tenace lotta contro il dogma, il quale doveva abbattere come primo passo della missione che si era fissato la nuova medicina, ed ad illuminare l'opera dei prosecutori con faville ammirabili che tracciarono direttive nell'eterno cammino della conoscenza.
Come precursore, come costruttore, nonostante le inevitabili esagerazioni di quelli destinati ad essere fermenti nello sviluppo dell'Umanità, ha un posto ben conquistato nella storia dei suoi benefattori.
Nell'anno 1541 si spense questa vita a Salisburg.
Insegnamento 13: I Mistici di Port Royal
Non si può parlare della vita di Pascal senza prima descrivere a Port-Royal che, tanto strettamente vincolato, fu l'anima e la missione di questo Gran Iniziato.
Quando in 1602 entrava nell'antico monastero di Cister la nuova abbadessa Angelica Arnaud, di 11 anni di età, nessuno sospettava che una nuova era cominciava per la chiesa della Francia e per lo svolgimento spirituale del cristianesimo.
Port-Royal era uno dei tanti monasteri della Francia dove le suore, signorine distinte, trascorrevano il suo tempo tra la conversazione elegante, le vanità mondane e le feste.
Essere abbadessa di un monastero equivaleva così rappresentare una famiglia ricca, distinta, la quale era riuscita questa dignità per sua figlia, al fine di proporzionargli onori, ricchezze e lignaggio.
Tuttavia la piccola Angelica non si sentiva felice tra tante delicatezze. Una tristezza sconosciuta consumava il suo soave viso. Inutilmente le tredici sorelle che componevano la comunità cercavano di distrarla. Si sentiva sola e con la sua vita vuota.
All'età di quindici anni la predica di un francescano sulla passione di Cristo sveglia in lei un desiderio irresistibile di perfezione e di riforma di vita. A poco a poco riesce a fare sentire sugli altri religiose quello dominio irresistibile della sua personalità che eserciterà dopo durante tutta la sua vita sugli esseri. Riuscì così a riformare gradualmente il monastero.
In questi tempi era cosa ammirabile questa vita esemplare in un convento di suore. Fino al padre della giovane e tutta la sua famiglia si trovarono avvolti nel misticismo dell'adolescente abbadessa che, incorruttibile, impose la clausura, il silenzio e la vita povera e raccolta nel suo convento.
Port-Royal si va trasformando gradualmente nel faro della Chiesa della Francia. Tutti gli occhi devoti guardano verso lì, come verso un porto di pace e salvazione.
Ma in 1619, all'improvviso la fama della madre Angelica sale fino alle nuvole. In Maubisson, l’abbadessa Angélica D'Estrées, con la sua vita dissipata scandalizza al suo convento ed ai suoi amici, fino a che il clero, indignato, decide recluderla tra le penitenti di Parigi. La madre Angélica Arnaud è designata, allora, per dirigere e riformare questa nuova comunità. È ricevuta lì freddamente e, quando gli offrono la lussuosa stanza dell'abbadessa, lo respinge e si stabilisce nella più umile stanza che rimane vicina alle cloache. A poco a poco attrae alle religiose, impone le regole e riforma il monastero.
Ma una notte, la D'Estrées, che è fuggito delle penitenti, accompagnata da un esercito di cavalieri amici, si presenta alla porta del convento, reclamando i suoi diritti. Non si spaventa la giovane Angelica, né vuole abbandonare il suo posto; ma, quando a mano armata è invaso il chiostro ed ella duramente colpita, abbandona con ogni dignità l'abbazia, accompagnata per trenta religiose.
Suo padre Arnauld corre al convento seguito per gli arcieri del re. La D'Estrées fugge coi suoi accompagnatori e quella stessa notte la madre Angelica può ritornare a Maubisson colle sue religiose.
Da tutti i conventi del Cister la chiamano affinché imponga le regole e la vita esemplare; ma è sempre a Port-Royal dove ella anela ritornare e dove trova la pace, la calma e la vera fratellanza.
Un'anima così, nelle mani di un direttore soave, avrebbe dedicato la sua vita alla contemplazione passiva. Questa sembra essere la sua orientazione quando conosce a San Francesco di Sales, e si mette sotto la sua direzione.
Ma anche un'anima così, in altre mani, può trasformarsi in una gran combattente. Ed in tale diventa questa fondatrice e maestra del giansenismo, quando dopo la morte di San Francesco di Sales, conosce e si mette sotto la direzione di Saint Cyran.
Questo venerabile sacerdote era stato amico intimo di Giansenio, vescovo di Ypres che aveva scritto il commento sulla dottrina di San Agostino, “Augustinus”, in visibile contraddizione colla dottrina tomistica.
Né si immaginava questo vescovo al morire che aveva lasciato col suo libro un’arma che alzerebbe un fuoco terribile dentro la chiesa cattolica. Promulgando la supremazia della grazia contrariava il libero arbitrio; di lì la gran lotta che sosterrebbero dopo i giansenisti, figli dell'austerità e della divinità nel suo concetto astratto, contro i gesuiti, pionieri della forte ed infrangibile volontà ed il libero arbitrio.
In poche parole ed in senso esoterico: i giansenisti tutto lo fanno per intuizione e per la legge di predestinazione; mentre i gesuiti tutto lo fanno per l'analisi razionale o legge di possibilità.
Né uni né altri stanno esattamente nel mezzo né nella ragione; perché le due leggi sono indispensabili e stanno dentro l'universo.
Naturalmente che, periodicamente, nei grandi movimenti religiosi ed etici predomina una od altra tendenza, come aveva passato nel cristianesimo colla venuta di Lutero e la sua fede nella predestinazione.
Nonostante la sua controriforma, i cattolici non potevano smettere di vedere i risultati vantaggiosi che prendevano fantastiche proporzioni di chi essi, spregiativamente, chiamavano protestanti. La severità del culto, il puritanesimo morale, l'obbedienza cieca alla legge di Dio, l'ascetismo che, saltando insieme a piedi sulla ragione si stanzia unicamente nella fede, non smetteva di ammirare gli invidiosi romani. Con passione ed impegno erano estratti degli archivi gli antichi testi di San Agostino, fondatore della primitiva chiesa che erano stati abbandonati dopo le norme aristoteliche e scolastiche.
Il giansenismo era un po' di tutto questo; ritorno alla fede cieca, al concetto di predestinazione, alla severità delle abitudini dei principi cristiani, basandosi esclusivamente sulla dottrina di San Agostino, come un volere impiantare, dentro il credo romano, una reazione simile alla luterana, ma con fini completamente opposte ed ortodosse.
In quegli anni appare nel dramma del mondo Blaise Pascal. Nasce in Clermont, in 1623; la sua famiglia, di severi cattolici, l'educa nel più stretto senso religioso. Ma un impulso naturale ed interiore dimostra dai primi anni di questo Iniziato come era destinato a scoprire grandi misteri fisici.
All'età di 9 anni un calcolo algebrico risolto da lui lascia attonito al padre chi gli concede piena libertà affinché si applichi ai suoi studi favoriti. Da allora comincia quella ricerca affannosa che farà che Pascal possa, scientificamente, dimostrare le teorie di Galileo e Torricelli.
Successivamente evidenzierà, con l'esperimento chiamato della vescica, l'esistenza del vuoto; darà la formula per dimostrare la pesantezza dell'aria e l'equilibrio dei liquidi, base fondamentale dell'idrostatica.
In 1643 entra nella corrente Giansenista dopo avere sentito un sermone del padre Singlin, discepolo di Saint Cyrán.
Sembra una contraddizione che un uomo tanto positivista nelle sue scoperte si affiliasse a quello cristianesimo astratto. Tuttavia è molto chiara e conseguente questa spiritualità. La ragione dogmatica dei gesuiti non può compiere né partecipare alla razionalità pratica di questo uomo che se ragiona delle cose positive, ha bisogno di ampi campi di libertà più oltre la ragione e volare per gli spazi spirituali.
Sua sorella Gilberta, la maggiore, e la sua dolce e benamata sorella minore Giacometta sono anche attratte per questa novità religiosa tanto in boga e tanto discussa nei saloni e nelle aule di Parigi. Ma c’è più; Giacometta si fa presentare alla madre Angelica, e veementemente desidera farsi religiosa. Questa idea spaventa a Pascal che si opporsi terribilmente e l'allontana, momentaneamente, dei suoi nuovi amici spirituali. Ma Giacometta vince tutti gli ostacoli e, dopo la morte di suo padre, prende il velo in Port-Royal per trasformarsi nella sorella Santa Eufemia.
Comincia qui il periodo della vita mondana di Pascal. È l'uomo del giorno, cercato per tutti; il suo aspetto etereo, il suo viso languido ed la sua presenza distinta l'attraggono la simpatia e l'amore delle donne. L'amicizia del duca di Ruanese gli apre le porte di tutta l'aristocrazia parigina e sembra che coi suoi studi, colle sue cattedre e colle sue amicizie ha dimenticato completamente l'orientazione spirituale; ma subitanee tristezze e scontenti l'assaltano. Una rara malattia che lo colpisce ogni tanto, e lo lascia dolorante e come paralizzato gli è ripetuto frequentemente.
La notte del 23 di novembre di 1654, stando nella sua stanza, nella casa del duca di Ruanese, dove viveva, una repentina luce invade la sua mente. Cade come in estasi. Esseri meravigliosi a lui si scoprono. Non potrà mai spiegare quello che sente e sa; ma da quello momento che egli chiamò della sua conversione, già la sua vita non perderà la sua vera orientazione.
Nella soglia della nuova vita l'aspetta gioiosa, l'anima di sua sorella religiosa che gli consiglia compartire l'abitazione con gli eremiti dei campi, i giansenisti, che si rifugiavano di fianco a Port-Royal. Tra quelli signori cerca ospito la sua anima, confidando la sua direzione spirituale a Di Saci.
Ma cominciano per i giansenisti i tempi cattivi e di persecuzione. I gesuiti li incalzano dappertutto, fino a che ottengono che il Papa li condanni, in 1661. C’è una disperda generale.
La madre Angelica era morta per allora, accontenta come diceva, di fuggire da quello mondo di iniquità. Tre mesi dopo, muore anche, vittima del dolore, la soave sorella Santa Eufemia. Con gli altri giansenisti, Pascal deve fuggire da casa in casa, essendo perseguito dappertutto.
Fallisce l'opera spirituale, non sente già desideri di vivere, né vuole firmare la rinunzia al suo credo. Sempre di più la sua malattia l'assale e tormenta fino a che, il 17 Agosto di 1662, nella casa di sua sorella Gilberta, rompe i lacci fisici e riesce la libertà tanto anelata.
Bello è dovuto essere per lui quell'istante, quando contemplò che la sua opera non era un fallimento perché aveva collocato sulla terra due verità che conquisterebbero al mondo; il predominio della ragione sull'intuizione, della fede sulla ragione, e la necessità della dimostrazione pratica di ogni scoperta teorica.
Insegnamento 14: Visioni di Emanuel Swedenborg
Emanuel Swedenborg nacque a Stoccolma, Svezia, il 29 gennaio di 1688 e decedè a Londra il 29 di Marzo di 1772.
Figlio di un vescovo luterano, completò i suoi studi in Upsala ed in 1709 si trasferì all'Inghilterra dove si diede interamente allo studio scientifico, mostrando marcata predilezione per Newton e le sue teorie.
Tutta la sua vita sembra indicare che dalla sua prima infanzia fosse divinamente ispirato, guidato per la missione che svolse nel mondo, e fino a fisicamente veniva preparato dalla sua nascita, perché il suo sistema respiratorio, nei momenti di estasi, cessava quasi completamente nella cosa esterna per continuare respirando internamente in forma silenziosa, ed in pieno uso delle sue facoltà mentali e fisiche.
Riferisce Swedenborg in “Arcana Coelestia” che i primitivi uomini avevano una respirazione interiore, essendo appena l'esterno percettibile, ragione per la quale non parlavano tanto con parole come quelli della sua posterità e come si parla attualmente bensì come lo fanno gli angeli, cioè, colle idee del pensiero, espresse mediante innumerabili modificazioni delle fazioni del viso, specialmente delle labbra nei quali sono innumerabili combinazioni di fibre muscolari che non si trovano sviluppate nell'uomo del nostro tempo.
A 4 anni, il suo gusto prediletto era parlare coi suoi genitori di religione, ed a 7 anni si dilettava in conversare con ministri della Chiesa, sostenendo che l'anima della fede è la carità, e che nessuno ha vera fede se non realizza la sua vita basandosi sui divini precetti del Decalogo, dati all'uomo per Dio per la sua guida durante il tragitto della rigenerazione.
Ricevè accurata educazione, mostrando predilezione per le scienze e viaggiando per l'Inghilterra, Olanda, Francia e Germania, affezionato alla preparazione di esperimenti nel terreno della fisica.
Fino ai 56 anni, la sua produzione è eminentemente scientifica, e secondo alcuni biografi stava 100 anni anticipato con relazione alla sua epoca.
È così come proietta una barca di guerra capace di navigare col suo equipaggio sotto le acque e capace di causare gravi danni alla flotta nemica; un fucile di aria capace di sparare 60 a 70 tiri senza necessità di ricaricare, ed anche un apparato meccanico per volare.
Nonostante, nei suoi studi scientifici predominava sempre l'anelito di indagare e risolvere i problemi spirituali; tutti i suoi sforzi si incamminavano verso una stessa fine sublime: dimostrare l'esistenza di Dio, e scoprire la vera relazione tra l'anima ed il corpo, tra lo spirito e la materia.
Scientificamente fallì in quella ricerca fino a che, il secondo giorno di Pasqua di 1744 si prodursi in lui la percezione spirituale, secondo quello raccontato nel suo diario di appunti che minuziosamente registrava per il suo uso particolare, e che furono pubblicati un secolo più tardi.
Dice Swedenborg: “Poiché il Signor non può manifestarsi in persona, ed avendo annunciato tuttavia che verrà e stabilirà una nuova Chiesa che è la Nuova Gerusalemme, segue che lo farà per mezzo da un uomo che può non solo ricevere la dottrina di questa Chiesa col suo intendimento ma anche pubblicarla per mezzo della stampa. Che il Signore si è manifestato in me, il suo servo, inviandomi con questa missione, e che dopo aprì la vista del mio spirito, introducendomi nel mondo spirituale e permettendomi di vedere i cieli e gli inferni, e conversare continuamente con angeli e spiriti per molti anni, attesto in realtà, come che dal primo giorno del mio appello non ho ricevuto cosa alcuna, appartenente alla dottrina di questa Chiesa di angelo alcuno, bensì del Signore solo mentre leggeva il Verbo”.
Questa continua visione gli permise di essere istruito mediante angeli e spiriti di tutto quanto era necessario sapere per ristabilire le verità perse della Chiesa, ed osservare la relazione universale che esiste tra la cosa spirituale e la cosa naturale per creazione, ed a questa relazione chiamò: la Legge delle Corrispondenze; le sue basi sono che nell'esistenza della creazione sono due domini: quello della cosa spirituale e quello della cosa fisica.
La cosa spirituale è la cosa reale, e la cosa fisica è solo il suo simbolo e riflesso. Tra uno ed un altro c'è, da tutte le parti, perfetta corrispondenza, ed il senso reale e vero della Natura e la vita naturale non può concepirsi fino a che si riconosca questa legge, e si familiarizzi col suo uso.
La conoscenza di questa legge, applicata alla sua conoscenza sul mondo fisico e specialmente sul corpo umano, gli permise di interpretare le Sacre Scritture per trovarsi queste scritte mediante pure corrispondenze, credendo che così si rivelava l'esatto senso spirituale nel quale sta la sua vera portata, virtù e santità, e mediante il quale il Signore verifica la sua seconda venuta al mondo.
Emanuel Swedenborg fu designato per il Re in un'alto posto nel Reale Negoziato di Miniere; rinunzierà in 1747 per dedicarsi interamente al suo lavoro teologico. Mantenne tuttavia il suo contatto col mondo, occupandosi del suo posto nel parlamento e staccandosi nel studio di problemi che colpivano la buona marcia della sua patria, menzionandosi una memoria su temi finanzieri come la più documentata e meglio scritta nella materia. Anche un progetto su Difesa Nazionale l'ebbe come iniziatore dello stesso.
Come scientifico basta dire che la sua famosa opera “Opera Philosophica et Mineralia”, presenta una teoria dettagliata sull'origine dell'Universo visibile, ed espone la sua ipotesi sulle nebulose, teoria che dopo fu attribuita a Kant e Laplace.
Della sua chiaroveggenza è rimasto un'esperienza notevole. In circostanze in cui viaggiava verso Stoccolma dovette trattenersi in Gotemburg, città situata a 250 chilometri della Capitale e, pranzando colle principali personalità della località, sollecitò autorizzazione per ritirarsi, ritornando al poco momento profondamente affettato manifestando che c’era un gran incendio a Stoccolma, e che il fuoco era arrivato fino ad una casa situata a tre porte prima della sua.
Dopo poco momento si ritirò nuovamente e ritornando vicino ai suoi amici potè tranquillizzarli, informandoli che era riuscito a fermare la propagazione del sinistro, prima che arrivasse alla sua casa. Solo tre giorni dopo si conobbero esattamente ufficialmente queste notizie in Gotemburg, ed i dettagli coincisero con quelli che Swedenborg proporzionò.
Investigazioni effettuate alcuni anni dopo per il celebre filosofo Kant, gli permisero di comprovare dettaglio per dettaglio l'esattezza della visione, verificandola con testimoni di primo ordine che vivevano ancora e che per la sua posizione e cultura erano irrecusabili.
A queste prove della sua chiaroveggenza nel piano fisico ed anche alle sue percezioni nel mondo spirituale non dava maggiore importanza perché manifestava che l'oggetto di esse era chiarirgli il senso spirituale del Verbo. Rispetto a queste percezioni nel mondo spirituale e celestiale, emergeva che non c'era similitudine alcuna con l’estasi e visioni dei Profeti ed Apostoli, a punto tale che la sua missione “era limitata a dedurre il senso spirituale dai testi che gli erano presentati senza potere mettere della sua parte una pagina di dottrina”.
Neanche trovava similitudine colle visioni dei santi aggregando che ci sono due classi straordinarie di visioni “ed io sono stato portato alle due situazioni affinché sapesse come sono. La prima è essere portato col corpo fisico e solamente due volte mi fu fatta questa esperienza. La seconda è di essere trasportato per lo spirito ad un altro luogo. Questo mi fu dimostrato solo due o tre volte”.
Le sue percezioni, che durarono 27 anni, gli permisero di rimanere allo stesso tempo nel mondo spirituale e nel mondo naturale, parlare con gli angeli come con gli uomini, conoscere lo stato dei più illustri dei morti di tutti i tempi e visitare gli abitanti di Mercurio, Saturno, eccetera.
Aggrega Swedenborg “che questo dono di percezione non può essere trasmesso di una persona ad altra a meno che il Signore per sé stesso apra la vita dello spirito di quella persona”.
"A volte si concede che uno spirito entri in un uomo e gli comunichi alcuna verità, ma non è concesso a quell'uomo il potere parlare direttamente collo spirito”.
Le sue percezioni succedono con assoluto possesso chiaro e netto della sua ragione, e tanto succedevano in stato di veglia come durante il sonno, durante fantasticherie o in stato di veglia e sonno.
Pochi mesi prima del suo decesso, in una lettera diretta al Capo dei Metodisti Inglesi, John Wesley, predisse con ogni esattezza la sua morte, quella che si prodursi il 29 di marzo di 1772, a Londra a 84 anni di età.
In 1908 il governo della Svezia, trasportò i suoi resti nella sua città natale, essendo depositati nella cattedrale di Upsala, al lato della tomba del naturalista Linneo.
Insegnamento 15: Saint Martin
Chiamato "Il Filosofo Sconosciuto", pseudonimo che adottasse nei suoi scritti, nacque in Amboise (Francia), il 18 Gennaio di 1743, nel seno di una famiglia della nobiltà. Fu educato da suo padre con la gravità di abitudini dell'epoca e per sua matrigna, perché sua madre era deceduta a poco di dargli alla luce, con tenerezze tali che questa impressione sarebbe decisiva nel futuro per tutti i suoi affetti.
Essi gli farebbero amare a Dio e gli uomini con gran purezza, ed il suo ricordo sarebbe sempre molto gradevole al filosofo in tutte le fasi della sua vita.
Ci sarà sempre santamente una donna amata in ognuna delle tappe a percorrere.
Il suo cuore così disposto per l'amore, ricevè dalle prime letture fatte all'età in cui eccelleva ancora la sua intelligenza, un'impressione e tendenze più decisive, più interne e più mistiche. Il libro di Abbadie, “L'arte di conoscersi a se stesso”, l'iniziò in quell'insieme di studi di sé stesso e di meditazioni sul tipo divino di tutte le perfezioni che sarebbe la gran opera di tutta la sua vita.
Fisicamente preparato per i grandi voli spirituali, aveva un organismo molto delicato, ma indubbiamente predisposto alla vita dello spirito. A questo rispetto dice in “Il mio ritratto storico e filosofico”: "cambiai pelle sette volte durante la mia infanzia, e non so se a causa di questi incidenti devo avere tanto poco di ‘astrale’”.
Poco si sa di suoi primi anni scolari; per compiacere suo padre ed il protettore della sua famiglia, il duca di Choiseul, segue studia diritto, “ma preferirebbe dedicarsi alle basi naturali della giustizia che alle regole della giurisprudenza il cui studio gli ripugnava", afferma il suo biografo M. Gence.
Questo si spiega poiché a 18 anni conosceva già ai filosofi di moda: Montesquieu, Voltaire e Rousseau, e quando si è preso l'abitudine di imparare di leggi ed abitudini con tali maestri, è logico supporre che Saint Martin sentirebbe con freddezza la parola di semplici professori di giurisprudenza. In quanto alla ripugnanza che sentiva per i codici e tradizioni dell'abitudine applicate alla giustizia, si spiega anche per il suo carattere eminentemente spiritualistico.
Nonostante continua i suoi studi e si riceve di avvocato, e sempre per compiacenza verso suo padre entra nella Magistratura, corso che abbandona sei mesi dopo nonostante le buone prospettive, poiché colla protezione del duca di Choiseul gli era risultato facile succedere al suo zio che svolgeva in quello tempo un posto di Consigliere di Stato.
Entra al corso delle armi, nonostante detestasse la guerra, non per farsi una posizione o distinguersi in forma vistosa, bensì per potere occuparsi dei suoi studi favoriti, la religione e la filosofia, fuggendo così delle dottrine materialiste della sua epoca che riempivano di allarme la sua anima tenera e pia.
Grazie alla protezione del duca di Choiseul, entra come sottotenente nel reggimento di Foix che si trovava di guarnizione a Bordeaux, ancora quando non aveva istruzione militare.
In quella città trovò l'alimento che la sua anima chiedeva: la Conoscenza.
In fatto, trova lì uno di quegli uomini straordinari, gran ierofante di iniziazioni segrete: Martines di Pasqualis, portoghese di origine israelita, che iniziava adepti in varie città della Francia dall'anno 1754, soprattutto in Parigi, Bordeaux e Lyon.
In apparenza, nessuno dei suoi alunni riuscì la conoscenza totale dei suoi segreti, perché lo stesso Saint Martin, che dovette essere uno dei suoi più illustri discepoli, manifestava che il Maestro non li trovò sufficientemente avanzati come per fare conoscere il segreto supremo.
In questa scuola Martines di Pascualis offriva un insieme di insegnamenti e simbolismi che uniti a certi atti di teurgia, opere e preghiere, formavano una specie di culto che permetteva di mettersi in contatto con le Entità Superiori.
Rispetto a questo, Saint Martin direbbe 25 anni dopo che la Saggezza Divina si serve da Agenti e Virtù per fare conoscere il Verbo internamente, capendo con queste parole le potenze intermediarie tra Dio e l'uomo, con queste condizioni indispensabili: una gran purezza di corpo e di immaginazione.
Questi intermediari sarebbero necessari mentre l'uomo completasse il ciclo di evoluzione, finendo il quale sarebbe uguale a Dio e si unirebbe a Lui.
Saint Martin prosegue questi studi esoterici a Bordeaux da 1766, e subitamente sveglia in lui il desiderio di parlare al gran pubblico e di agire fortemente sulle masse.
Seguendo i doveri della sua professione, abbandona Bordeaux in 1768 per stare di guarnizione in Lorient e Longway, anno nel che anche il suo Maestro si trasloca a Lyon e Parigi, dove fonda nuove logge.
Questa separazione è possibilmente la causa di che Saint Martin abbandoni le armi in 1771, determinazione grave nel suo caso poiché implica bastarsi a sé stesso non avendo mezzi di fortuna e correndo il rischio di disgustare al suo padre, quello che felicemente non succedè.
La sua vocazione è già perfettamente stabilita. Egli sarà un Direttore di anime. Dal cielo viene il mandato e la sua vita si dedicherà interamente a ciò ed al suo perfezionamento.
Si trasloca a Parigi, dove ben pronto si mette in contatto con gli alunni di Martines di Pasqualis: il conte D'Hauterive, la marchesa della Croix Cazotte ed il chierico Fournié.
Coi due primi persisterà l'amicizia durante tutta la vita per la gran affinità nelle sue aspirazioni e specialmente col conte D'Hauterive, col quale si trova da 1774 in Lyon, città alla quale il nostro biografiato si trasloca e nella quale Martines di Pasqualis aveva fondato la Loggia della Beneficenza. In lei seguì un corso di studi ed in compagnia di D'Hauterive per tre anni si dedicarono a sperimentazioni tendenti ad entrare in contatto con gli Esseri Superiori, e riuscire la conoscenza fisica della “Causa attiva ed intelligente”, nomini con che si conosceva in quella scuola teurgica al Verbo, alla Parola o al Figlio di Dio.
Per questa epoca, vicino già a trenta anni di età, Saint Martin era molto bene ricevuto nel gran mondo. È descritto come padrone di una figura espressiva e di un nobile gesto, pieno di distinzione e riserva. La sua condotta annunciava allo stesso tempo il desiderio di compiacere e di dare qualcosa. Ben pronto fu molto conosciuto e cercato da tutte le parti con gran interesse.
Gli toccava agire nel seno da una società molto mischiata, poco seria e mondana, nella quale il ruolo a svolgere fu considerabile dall'inizio.
Nato nel mondo ed amandolo, sempre allegro e spirituale quando gli conveniva esserlo ed abitualmente teosofo grave ed umile con apparenza di ispirato, egli godeva di tutta la deferenza che tale atteggiamento la società femminile concede.
La sua dottrina, completamente opposta alla filosofia superficiale che regnava in quelli giorni, era giustamente la chiamata a battere negli spiriti preparati a sentire la gran verità.
E mentre continuava a compiere la sua missione di direttore di anime in tanto variopinta società, fruttificavano i vecchi studi in lunghe meditazioni che culminerebbero in 1775 colla pubblicazione della sua opera “Degli errori e della Verità”, pubblicata in Lyon con lo pseudonimo di “Il Filosofo Sconosciuto”.
Questo libro, confutazione delle teorie materialista in boga in quell'epoca, mostra che la gran forza che si manifesta nell'Universo e che lo guida, la sua causa attiva, è la Parola Divina, il Logos o il Verbo. È per il Verbo, per il Figlio di Dio, che il mondo materiale fu creato come così pure il mondo spirituale. Il Verbo è l'unità di tutti i poteri morali o fisici. È per lui, o forse derivato di lui che noi avviamo tutto quanto esiste.
Questo ultimo, la teoria dell'emanazione, provocò l'ira dei suoi avversari, ma i suoi amici vedendo in lui un audace e poderoso campione dello spiritualismo che il secolo voleva o sembrava considerare come definitivamente perso, si raggrupparono alla sua periferia con gran deferenza. Questo debutto sembrava rivelatore di uno scrittore profondo e benché in quello tempo Martines di Pasqualis vivesse tra essi, niente pubblicava, ed al contrario, passava interamente inosservato. Questo portò possibilmente la confusione di attribuire a Saint Martin la fondazione della scuola dei Martinisti in Germania ed altri paesi del Nord, quello che non fu apparentemente così, perché si trattava di un conglomerato di logge e santuari che adottarono le teorie segrete di Martines di Pasqualis più che del suo discepolo.
Saint Martin fallì, apparentemente come fondatore, ed in realtà la scuola dei Martinisti dovette chiamarsi Martinesisti per distinguerla dei discepoli di Saint Martin.
Non era un'opera esterna la sua vera missione, bensì già la menzionata di direttore di anime, a punto tale che per suoi scritti e corrispondenza intima si deduce chiaramente che oltra al suo lavoro di proprio perfezionamento, era il suo lavoro di missionario della gran opera che gli era raccomandata. Ed a lei si dedicò pieno di ardore, ricco in forti convinzioni, godendo con prudenza di una gioventù ben governata, spinto per il successo e molto bene ricevuto ancora dove non riusciva il suo obiettivo, cioè la direzione dell'anima, essendo la sua propaganda attivissima nel gran mondo.
Aveva contatto con innumerabili persone in molte località della Francia, ed in tutte esse esistevano gruppi che effettuavano esperimenti psichici e di mediumnità. Non era questo il forte di Saint Martin e benché riconoscesse la realtà di certi risultati, preferiva il suo ruolo di insegnante, che gli dava molte soddisfazioni ed in alcuni casi ammirabili risultati.
Cercava i suoi discepoli tra le personalità più distaccate nell'epoca, fossero già uomini di scienza come l'astronomo Lalande che non lo comprese, o con chi il Cardinale di Richelieu mantenne varie interviste, ma al che finalmente dovette abbandonare dovuto alla sua età e sordità.
Al duca di Orleans che si farebbe celebre pochi anni più tardi per la rivoluzione, anche lo rifiutò, nonostante che in quello tempo già era l'esponente più elevato delle nuove idee che andavano a cambiare il viso della Francia.
Non si attaccava agli uomini; cercava solo le anime che avevano bisogno della sua direzione.
In 1778, già nei suoi 35 anni di vita, si trasloca a Toulouse, dove per due volte il suo cuore sembra volere tradirlo ed attaccarsi affettivamente sul punto di pensare al matrimonio. Ma dopo poco tempo considerava entrambe le esperienze come vere prove, per le quali era arrivato alla conclusione che non c'era niente nella terra che potesse attaccarlo ed allontanarlo dalla sua missione.
Pochi mesi rimase in questa località, ritornando a Parigi, città alla quale chiamava il suo purgatorio.
Insegnamento 16: Il Filosofo Sconosciuto
Saint Martin è l'unione tra le logge mistiche della pre-rivoluzione francesa e le logge sociali dell'epoca liberale.
Verso fine del secolo XVIII la Francia era piena di logge massoniche fondate per Cagliostro e, vicine a Parigi, in Versailles, Martines di Pasqualis aveva fondato quelle che posteriormente si denominerebbero dei Filaletei e Grandi Profeti. Saint Martin, che spiritualmente si sentiva lontano della massoneria, neanche potè mettersi in contatto con queste ultime, perché apparentemente si dedicavano ad esperimenti di alchimia, quello che sbatteva al suo spirito amico di un misticismo puro.
È in questa epoca che corrisponde anche all'allontanamento del suo Maestro in viaggio a Santo Domingo dove morrebbe, e nella quale Saint Martin è, se non il successore riconosciuto, per lo meno il principale iniziatore della dottrina della scuola, quando si differenzia la nuova era in cui entra. In effetti, lasciando ad un lato tutto il cerimoniale e tutte le sperimentazioni teurgiche, Saint Martin cerca risultati superiori, mediante il raccoglimento, la meditazione, la preghiera che portano all'Unione con Dio.
A questo apostolato dedica la sua esistenza intera ed a quello fine cerca le anime nel gran mondo, i grandi scrittori e gli uomini di scienza, convinto che la sua parola diretta guadagnerà con ma facilità le anime che con qualunque altro metodo, poiché ha a Dio nel suo aiuto.
Non è vanitoso pensando così; al contrario, è tanto umile che arriva alla timidezza e comprende e sa che deve avere chi lo stimoli per dare di sé tutto quello che può. Questo fu il gran merito della Marchesa di Chabanais, donna eminente ed alla quale fu sempre molto grato per avere il raro privilegio di aiutare al suo spirito dandogli l'impulso necessario per elevarlo a maggiori altezze.
È in questa epoca quando prende anche la direzione spirituale della Duchessa di Borbone, gemella del Duca di Orleans e madre del Duca di Enghien, del quale fu il suo amico, protetto ed ospite abituale quando abitava a Parigi.
Le sue relazioni abbracciano i nomi più famosi dell'epoca. Passa 15 giorni nel castello del duca di Bouillon, dove ha opportunità di conoscere a Madame Dubarry, alla che si trattava ancora come principessa favorita nonostante il suo regno avesse passato. Il duca di Bouillon fu apparentemente un discepolo disposto agli insegnamenti di Saint Martin, quello che è di fare notare, poiché era uno dei pochi amici ben ricevuti per il re Luis XV.
Dice Matter: "È forse questo la migliore epoca della sua vita. Meraviglia vedere un gentiluomo di piccola nobiltà e di fortuna mediocre, un semplice ufficiale, senza dubbio molto studioso, ma scrittore poco conosciuto ancora, svolgere un ruolo tanto considerabile in tanto gran numero di famiglie dei migliori del paese, portato solamente delle sue grandi aspirazioni e della sua pietà poco maturata ancora!".
In generale è ascoltato con singolarità, ma non è assecondato. Sembrasse che in mezzo a quella società tanto sensuale, scettica e materialista, tutti desiderassero luce, ma una luce dolce e gradevole, e trovandosi con una forma qualcosa austera, come la presentava nel suo primo libro, la respingevano.
Esatto per i suoi discepoli ad esporre in forma ancora più chiara la sua dottrina, pubblica in 1782 il “Quadro naturale delle relazioni che esistono tra Dio, l'uomo e l'universo”, manifestando nello stesso che le cose devono essere spiegate mediante la costituzione dell'uomo, e non l'uomo mediante le cose.
Aggrega che le nostre facoltà interne e nascoste sono le vere cause delle opere esterne, e così pure che sono le potenze interne le vere cause nell'Universo di tutto quanto si manifesta esternamente. Lontano da volere occultare ai nostri occhi le verità feconde e luminose che sono l'alimento dell'intelligenza umana, Dio li ha scritte in tutto quello che ci circonda. Li ha scritte nella forza viva degli elementi, nell'ordine e l'armonia di tutti i fenomeni del mondo, ma ancora molto più chiaramente in quello che forma la caratteristica distintiva dell'uomo.
Pertanto, studiare la vera natura dell'uomo e dedurre dai risultati che sorgano da questo studio la scienza dell'insieme delle cose, apprezzarli ai raggi della luce più pura, quello deve essere il gran obiettivo del filosofo.
Come l'anteriore, questo libro è poco chiaro in molte delle sue espressioni, possibilmente dovuto alle esigenze del segreto compromesso nella scuola di Martines di Pasqualis.
Sebbene la critica poco si occupò di questo nuovo libro, egli gli valse essere considerato per i Martinesisti come il successore naturale del suo fondatore, ed invitato a finire congiuntamente l'opera. I lavori di questa Società consistevano apparentemente in conciliare le idee di Swedenborg con quelle di Martines di Pasqualis, ma apparentemente, segretamente perseguivano fini politiche e la scoperta di alcuni dei grandi misteri, tra essi la pietra filosofale. Saint Martin, che si affannava per uno spiritualismo puro e che guardava con una certa diffidenza le operazioni teurgiche, respinse l'invito e si dedicò con più impegno a cercare i suoi discepoli tra il gran mondo che frequentava e tra i saggi dell'epoca.
Egli sapeva che non si domina bensì da sopra, e per ciò perfezionava la sua mira in alto. Non pretendeva di andare alla testa dei saggi, ma sapendo che non può influirsi all'opinione pubblica senza saggi, comprendendo che l’opinione pubblica si governa per mezzo di essi, desiderava arrivare al gran pubblico coi saggi.
C'erano tra tutti un corpo illustre che sembrava andare alla testa del movimento filosofico dell'epoca: L'Accademia di Berlino nella quale Mendelsohn, Bailly e Kant avevano incoraggiato i concorsi per mezzi dei suoi scritti.
A domanda di Federico il Grande, in 1776, l'Accademia aveva esposto una grave domanda, a sapere: “Se è utile ingannare al paese”, ed aveva ripartito in due il premio concorrenti che avevano inviato conclusioni interamente opposte, una delle quali sosteneva audacemente che ci sono occasioni in cui conviene lasciare al paese nell'errore. Le ripercussioni di questo dibattito erano state immense, e possibilmente Saint Martin sognava una pubblicità simile.
Pertanto, proponendo l'Accademia di Berlino un concorso sul tema “Quale è la migliore maniera di chiamare alla ragione alle nazioni selvagge o civilizzate che si sentono abbandonate agli errori e superstizioni di ogni genere", trovò Saint Martin l'opportunità di occuparsi di uno degli errori che era il più grave dell'epoca al suo giudizio: la sostituzione della ragione divina per l'umana.
Trattò la questione con tutta la profondità e l'importanza che gli dava il suo punto di vista illuminato. Desiderava introdurre nel mondo, sotto un’illustre bandiera, la gran dottrina che gli preoccupava, quella della profonda rottura che aveva lontana all'umanità delle primitive relazioni col suo Creatore.
Il suo scritto tentava al principio di dare una chiara definizione della ragione e dimostrare che per sottometterla agli uomini bisogna portarli alla condizione, ed alla scienza primitiva della specie umana. Questa scienza fu per molto tempo trasmessa segretamente di santuario in santuario, di scuola in scuola, e stabiliva fortemente quella spiritualità che distingue all'uomo dalla bestia.
Aggregava che quello che manca all'uomo quando arriva alla terra per compiere la legge comune della sua specie è la conoscenza di un laccio tranquillante ed unitivo colla fonte di dove derivò, mediante relazioni evidenti e positive, e concludeva manifestando che le uniche conoscenze che avranno su noi i suoi diritti assicurati, sono le luci che riusciamo sulle nostre primitive relazioni, e che è in noi stessi dove dobbiamo trovare la chiave di questa scienza che sono i raggi di luce divina che ci illuminano internamente.
Fate riconoscere quella divina irradiazione, quella relazione primitiva tra l'uomo e Dio, e si sarà risolto il problema, scopando del seno dell'umanità gli errori che coprono la verità e rovesciati alla ragione i paesi che sono abbandonati alla superstizione. Ma per questo è necessario che quelli che devono guidarli si illuminino i primi. Mentre si guarda alla natura ed all'uomo come esseri isolati, facendo astrazione dell'unico principio che vivifica ad entrambi non si otterrà un'altra cosa che sfigurarli di più in più, ingannando a quegli a chi si desidera insegnare a definirli.
Ma benché si adottasse questo punto di vista, non bisognerebbe immaginarsi che un uomo abbia il potere di fare molto in favore di un altro, perché "come un albero non bisogna un altro per crescere e dare i suoi frutti dato che egli porta in sé stesso tutto quello ch’è necessario, ugualmente ogni uomo porta in sé stesso la forma di compiere la sua missione senza chiedere prestato ad un altro."
Finiva con questa apostrofe: “Se un uomo non rimonta per sé stesso fino a questa chiave universale, nessuno sulla terra verrà a depositarla nella sua mano, e crederò avere risposto nella migliore forma possibile se sono riuscito a convincervi che l'uomo non possa rispondervi”.
I suoi contemporanei giudicarono che non era una risposta regolata alla domanda formulata, a quello che ripose Saint Martin che non era stato la sua intenzione dare una risposta nel senso del razionalismo dominante, e che quello che offriva era un manifesto.
In quello tempo si porsi in Francia la questione del magnetismo di Mesmer davanti all'Accademia di Scienze di Parigi, ed essendo stato designato Bailly tra i membri della commissione incaricata dell'investigazione, si presentò con l'oggetto di combattere le prevenzioni che supponeva Saint Martin in lui, perché benché non fosse entusiasta delle scoperte di Mesmer ai che guardava un insieme di fenomeni magnetici e sonnambulici che appartenevano ad un ordine di cose inferiore, considerava come che fossero materia degna di studio.
Non potè vincere le prevenzioni di Bailly, e giudicando in una delle sue lettere la memoria presentata per questo, il suo giudizio fu completamente dispregiativo, poiché dimostrarono nell'uomo di scienza poco spirito investigatore e davvero scientifico.
Questi due fallimenti non ebbero influenza su lui e già in Lyon, continuò in 1785 la sua opera esterna di direzione di anime, e l'interna del proprio perfezionamento.
Di Lyon si diresse all'Inghilterra dove ebbe opportunità di conoscere a William Law, ministro anglicano di intenso misticismo col quale ebbe gran amicizia. Col conte di Divonne formarono un terzetto di fraternità mistica. In poco tempo stava in contatto con la migliore società. Conosceva in anticipo la marchesa di Coislin, sposa dell'ambasciatore francese, quella che possibilmente l'introdusse nel gran mondo nel quale ebbe opportunità di dedicarsi al suo compito prediletto di propagandista mistico, compito nel quale non aveva preferenze speciali perché, durante la sua permanenza in Inghilterra, succedè che trovò maggiore quantità di adepti tra i russi che tra gli inglesi, citando come buoni teosofi al principe Alexis Galitzin e M. Thieman.
Pochi mesi più tardi partì di rotta all'Italia, paese che visitava per la seconda volta, trovandosi a Roma nell'autunno di 1787.
Frequentò anche lì il gran mondo, tra il quale vari cardinali, duchi e principi e, è di supporre nonostante niente si sappia che tutti quelli vincoli servivano solo per la ricerca continua di adepti.
In giugno di 1788 si trova a Strasburgo, città nella quale rimase tre anni ed alla quale si traslocò possibilmente nel suo desiderio di studiare a fondo le dottrine di Boehme che tanta influenza avrebbe posteriormente su lui.
Questa città era la culla delle esperienze di Mesmer ed era il teatro delle iniziazioni tanto famose, e cure miracolose del conte Cagliostro. Era una città libera ed imperiale che si caratterizzava per essere di ampia e cordiale ospitalità, dove frequentava la gioventù aristocratica della Russia, Germania e Scandinavia con quella della Francia ed un Metternich con Galitzin e Narbonne.
Lì si trovò con una delle sue dilette discepole: la principessa di Borbone, alla quale sacrificava gustose ore di raccoglimento che tanto amava; ma quello che è più, trovò una nuova fonte di spiritualità che gli aprirono il filosofo Rodolfo Salzmann ed una dama, madame di Boecklin, iniziandolo nello studio dell'illuminato Jacobo Boehme decidendolo a che imparasse il tedesco, poiché le traduzioni inglesi e francesi non potevano dargli nessuna idea di quanto rinchiudevano gli originale.
Con madame di Boecklin, Salzmann, il maggiore dei Meyer, il barone di Razenried, madame Westermann ed un'altra persona il cui nome non menziona, formarono un gruppo molto unito, al quale sicuramente si avvicinarono moltissimi più. Ma di tutti essi è Madame Boecklin a chi Saint Martin piace attribuire il più fecondo evento della sua vita di studi: la conoscenza della dottrina del teosofo Giacomo Boheme. E come mise a questo filosofo al di sopra di tutti i suoi maestri, così pure mise a Madame di Boecklin sopra tutte le sue amiche.
Per tutto questo Strasburg si trasforma nel suo paradiso; e per la tragedia che attraverserebbe Francia, Parigi sarebbe il suo purgatorio.
Madame di Boecklin ebbe il privilegio di esaltare la spiritualità di Saint Martin in tale forma quale nessuno seppe farlo fino allora. I tre anni che Saint Martin passò a Strasburgo sono decisivi nella sua vita, perché svilupparono considerevolmente la sua capacità scientifica, storica, filosofica e critica.
Conosce a poco di stare in Strasburg ad un nipote di Swedenborg, chiamato Silferhielm, in circostanze in che ancora Saint Martin continuava gli studi sul visionario svedese e, consigliato per lui, scrive una nuova opera intitolata “Il nuovo uomo”.
Pù tardi, e desideroso di deviare alla sua amica la Principessa di Borbone di certe pratiche che la pregiudicavano, scrisse un altro libro che intitolò “Ecce Homo” nel quale si fa riferimento alle false missioni e false manifestazioni, indicando da un lato con quelli nomi la chiaroveggenza e le cure meravigliose del magnetismo, e le apparizioni degli elementari che si avvalgono di esse per portarci per un cammino sbagliato, dall’altro.
La permanenza di Saint Martin a Strasburgo fu di enorme importanza perché, approfondendo gli studi su Boehme, il suo spirito si svilupò ancora più, poiché in quell'ambiente di libera discussione acquisì nuove discipline di studio e maggiore ampiezza di mire, e potè così, lontano del dramma che si sviluppava in Europa, paragonare le sue idee e quelle dei suoi maestri con quelle dei filosofi contemporanei, con Kant alla testa.
In 1791 Saint Martin, chiamato per suo padre che si sentiva gravemente malato, deve abbandonare Strasburgo per andare ad Amboise, il suo inferno, come lo chiamava. Inferno di ghiaccio, perché l'indifferenza dell'ambiente verso l'ideale che egli professa provoca una gran sofferenza. È questa una delle prove più terribili che deve sopportare dunque: all'allontanamento dei suoi amici e soprattutto di Madame di Boecklin, deve aggregare la solitudine spirituale in che si trova. Passati alcuni mesi, già in 1792, comprende che è una nuova prova alla quale è sommesso e si rassegna.
La pubblicazione delle due operi prima menzionate gli porta varie volte a Parigi in quell'anno nel che comincia anche la corrispondenza col suo amico Kirchberger di Liebisdorf che servirebbe di gran consolazione ed allo stesso tempo opererebbe su lui come spingo verso nuovi studi mistici, e la continuazione ed intensificazione degli studi sugli scritti di Boehme.
Questo nobile, membro del Consiglio sovrano di Berna e di varie commissioni cantonali e municipali, uomo di molto spirito, molto istruito e di viva curiosità, che sentiva verso Saint Martin una sincera ammirazione, significò per questo il meglio dei suoi discepoli, e la corrispondenza che cambiava con lui era una dei temi ai quali attribuiva la maggiore importanza.
Servirebbe anche da gran distrazione e l'aiuterebbe a dimenticare gli anni felici passati a Strasburg, quelli che contrastavano ancora più coi tempi difficilissimi che trascorrevano. La Francia si dibatteva nel terrore ed a dispetto di ciò Saint Martin mai pensò di abbandonare il paese. “E dipinto come padrone di un'impassibilità stoica, con una piena fiducia nella protezione divina, calmo e radiante, vedendo la mano della Provvidenza cadere pesantemente sulla dinastia ed il paese, sulle istituzioni invecchiate, il popolo e i capi ciechi” (Matter).
“Sperando sempre in nome di quelle leggi eterne il cui studi aveva preferito a quello della giurisprudenza volgare, lo sguardo elevato verso un orizzonte superiore e da un piano molto distinto a quello della moltitudine, attraversò gli anni della rivoluzione, profondamente emozionato, ma senza il minore turbamento. Meditava gli stessi problemi, proseguiva con la stessa missione e conservava le stesse amicizie” (Matter).
“Mentre altri filosofi, genti di lettere ed uomini di Stato e di guerra davano la schiena con spavento agli avvenimenti, pieni di terrore, egli non vedeva più che principi che non dovevano essere confusi con incidenti” (Matter).
In 1799 due colpi rudi l'aspettano: la morte di suo padre che lo colpisce nonostante essere attesa, e quella del re della Francia che l'aveva fatto Cavaliere di San Luigi per mani del Principe di Montbarey in 1789.
Per culminare, in quell'anno, la sua corrispondenza con Strasburgo appare come sospetta alle autorità, e col più grande delle pene e per evitare confusioni alla sua amica la contessa di Boecklin deve sopprimere quello che era tanto caro alla sua anima.
Dopo avere passato una stagione nel castello della Principessa di Borbone, ritorna ad Amboise per temi relazionati con la successione di suo padre. È questo un posto di calma paragonato col temporale che ruggisce a Parigi, città alla quale non poteva ritornare in virtù del decreto sulle caste privilegiate che lo colpiva personalmente per essere nato nobile. In Amboise è amato e gli è assegnato la missione di catalogare i libri e manoscritti ritirati delle case ecclesiastiche soppresse per legge. Accetta quello lavoro come una missione importante ed utilizzabile per il suo spirito, e non si sbagliò, perché proporzionò piaceri deliziosi al suo cuore come quando lesse la vita della suora Margherina del Santo Sacramento, comprovando il magnifico sviluppo spirituale riuscito per Margherina.
Il suo lavoro fu tanto bene apprezzato per le autorità che lo fu designato rappresentante del distretto davanti alla scuola Normale, carico che accettò anche, poiché come cittadino era sempre disposto a prestare appoggio al paese “mentre non si tenta di giudicare o ammazzare agli esseri umani."
Si trattava che cittadini eminenti di ogni distretto facessero una specie di allenamento nella scuola Normale per darsi un'idea del tipo di istruzione che si desiderava generalizzare nel paese, ed una volta acquisita questa esperienza dette persone sarebbero le indicate per formare i futuri istruttori.
Saint Martin ha in quell'epoca più di 51 anni e nonostante gli sbatta un po' la missione da certi punti di vista, accetta nella convinzione “che tutto è legato nella nostra rivoluzione, nella che mi è data l'opportunità di vedere la mano della Provvidenza; di tale modo niente è piccolo per me e benché non fosse più che un granello di sabbia nel vasto edificio che Dio prepara alle nazioni, non devo fare resistenza quando mi chiamano”. “Il principale motivo della mia accettazione", prosegue dicendo Saint Martin in una lettera al suo amico Liebisdorf, "è il pensare che con l'aiuto di Dio può sperare che colla mia presenza e le mie preghiere, arrivi a fermare una parte degli ostacoli che il nemico di tutta la cosa buona deve seminare in questa gran corsa dell'insegnamento che si apre, e della quale può dipendere la felicità di tante generazioni”.
“Questa idea mi risulta consolatrice ed ancora quando non riuscisse a deviare più che una sola goccia del veleno che quello nemico tenterà di gettare sulla radice stessa di quell'albero che deve coprire di ombra tutto il mio paese, mi sentirei colpevole di retrocedere.”
Non c'è dubbio che una delle sue speranze era potere fare proselitismo verso l'ideale della sua vita tra i due o tre mille professori coi quali andava a trovarsi nella scuola, ma il suo migliore profitto di questa esperienza fu l'acquisizione di una filosofia metodica che lo servirebbe più tardi per potere servirsi da lei contro quelli che si erano incaricati di insegnarla.
Poche opportunità ebbe nella Scuola Normale di parlare davanti agli altri membri; solo due o tre volte e quando più 5 o 6 minuti in ogni caso. Ma egli lasciava tutto in mani della Provvidenza ed insensibilmente continuava ad acquisire gran gusto nella discussione metodica che potè mettere in pratica in quello che si chiamerebbe “La Battaglia Garat”, discussione mantenuta con l'allora ministro di giustizia, ministro dell'interno e commissario generale dell'istruzione pubblica, Garat, che svolgeva il carico di professore di analisi dell'intendimento umano, nella scuola Normale, e col quale mantenne un dibattito che fece sensazione tentando di stabilire l'esistenza nell'uomo di un senso morale e la distinzione tra le sensazioni e la conoscenza.
Tutte le sue illusioni sulla Scuola Normale fallirono, e questa si dissolse in 1795, senza avere raggiunto gli obiettivi proposti.
Abituato già a discorrere con metodo filosofico e seguendo le ispirazioni della sua coscienza, desideroso di portare ai dibattiti propri dell'epoca parole di spiritualità dedicate a dimostrare che la finalità della vita e la salute del corpo sociale sta nelle vie spirituali, pubblicò la sua “Lettera ad un amico sulla Rivoluzione Francesa” in 1795, seguita per “Chiarezza sull'associazione umana” in 1797, ed un terzo libro in 1798 intitulato “Quali sono le istituzioni più appropriate per fondare la morale di un paese”.
Il fondo di queste pubblicazioni è il seguente: Ancora quando simpatizzando con le cause profonde e giustificabili del movimento rivoluzionario, Saint Martin propone principi che gli organismi della rivoluzione stavano lontano da ammettere. Non si trattiene Saint Martin nella forma esterna dei governi, siano già repubblicani, monarchici, aristocratici o misti; cerca più profondamente le condizioni di un'associazione legittima ed esse gli sembrano possibili di sussistere sotto tutte le forme politiche. Egli rifiuta un'idea molto corrente in quell'epoca che l'associazione sta motivata nella necessità di garantirsi mutuamente il piacere della proprietà ed altri vantaggi materiali che dipendono da lei, e cerca giusto l'origine di questa associazione in un pensiero che deve essere saggio, profondo, fertile e buono; questa origine è innanzitutto provvidenziale. Agli occhi di Saint Martin, l'uomo è disceso da uno stato superiore ad una situazione nella quale si sente circondato di tenebre e miserie; tutti i suoi sforzi attuali devono tendere ad alzarsi da quella caduta, e tutto il lavoro della Provvidenza non ha un altro oggetto che facilitargli quello compito.
Pertanto le diverse associazioni umane devono costituirsi con la stessa finalità e reggersi dentro quello stesso spirito, sotto pena di essere disapprovate per la saggezza divina.
Il suo gran obiettivo, la sua gran opera era, tuttavia, sempre la stessa; studiare la vita spirituale dell'uomo preso nella sua perfezione ideale o piuttosto nella sua primitiva natura; prenderlo nelle relazioni pure colla causa prima del mondo spirituale, ed insegnare a quelli che hanno orecchie per sentire l'arte di portarli a quella perfezione.
Era quello, al suo giudizio, l'unico studio che realmente meritava tutta l'attenzione degli uomini e come alla sua opinione Boheme era il migliore maestro in quella scienza, continuamente girava la sua attenzione agli scritti del gran mistico tedesco. Questi studi portarono alla conclusione che entrambe le scuole, quella di Boehme e quella di Martines di Pasqualis si completavano alla perfezione.
Per allora aveva potuto riannodare la sua corrispondenza con Madame di Boecklin, e continuava sempre quella del suo gran amico e discepolo Liebisdorf.
La sua situazione economica era abbastanza difficile, nonostante continuava essendo generoso e mantenendosi sempre sereno, fiducioso nei propositi della Provvidenza.
Il 7 febbraio di 1799 perde al suo amico Liebisdorf il cui sparizione lascia nell'anima di Saint Martin un vuoto insostituibile, e la sua unica consolazione è sempre ritornare agli scritti di Boehme, di chi traduce tre opere: “'Aurora Nascente”, “La Tripla Vita” ed “I Tre Principi”.
In 1800 pubblica un volume intitolato “Lo spirito delle cose” sulle quali l'autore cerca già la ragione più profonda delle cose che richiamano la nostra attenzione, sia nella natura come nelle abitudini, eccetera. L'idea fu suggerita per un'opera Boehme intitolata “Signatura Rerum”.
In 1802 pubblica un libro intitolato “Il Ministero dell'Uomo - Spirito" nel quale esorta l'uomo a comprendere meglio il potere spirituale del quale è depositario, ed ad usarlo nella liberazione dell'umanità e della natura.
Già in 1803 comincia a sentire gli stessi sintomi della malattia che portasse alla tomba al suo padre. Egli non teme alla morte e chiama alla sua malattia “Spleen”, chiarendo che non è il “spleen” inglese che fa vedere ogni nero e triste, perché quello di lui, al contrario, tanto internamente quanto esteriormente, lo torna totalmente di colore di rosa.
Un attacco di apoplessia mise dolce fine ad una dolce esistenza, lasciandolo ancora alcuni minuti per pregare e dirigere emotive parole ai suoi amici che accorsero immediatamente.
Li esortò a vivere in fraterna unione e colla fiducia in Dio, e pronunciando queste parole, spirò il mistico a chi M. di Maistre chiamasse “il più istruito, saggio ed elegante dei filosofi”.
Dice il suo biografo Matter: “Poteva chiudersi la sua corsa; aveva visto le cose più grandi che possano vedersi in tempo alcuno; aveva passato serenamente per dure prove ed aveva compiuto grandi lavori. Né la gloria del mondo né la fortuna gli erano appartenuti in vita ed ai suoi occhi niente avrebbe significato. Ma era degustato i più profondi e dolci dei godimenti; amato di Dio e degli uomini, anche egli aveva amato molto e sperò sempre più del futuro che del presente”.
Amò la sua opera e non aspettò mai il pagamento nella terra. Così lo diceva con proprie parole: “Non è nell'udienza dove i difensori ufficiali ricevono il salario corrispondente alle cause; è fuori dell'udienza e dopo che ha finito." “Quella è la mia storia e così pure è la mia rassegnazione di non essere pagato in questo basso mondo."
Nel suo libro intitolato “Ritratto”, esprimeva: “Non ho avuto più che una sola idea ed il mio proposito è conservarla fino alla tomba, ed è che la mia ultima ora è la più ardente dei miei desideri ed il più dolce delle mie speranze”.
C'è qui il codice morale di Saint Martin; mediante le sue regole, l'anima riesce unirsi col suo Creatore:
1a.) Tu sei uomo e pertanto non dimenticare mai che rappresenti la dignità umana. Rispetta e fa' rispettare la nobiltà; è questa la tua missione più generale ed alta sulla terra.
2a.) È dentro te stesso, nella luce che illumina il tuo essere, immagine di Dio e non nei libri che non sono un'altra cosa che le immagini dell'uomo, dove troverai le regole che devono guidare la tua vita.
3a.) Veglia su questa luce interna senza permettere che si dissolva in vane parole. Chi veglia severamente sulla sua parola, veglia sui suoi pensieri, veglia sui suoi affetti, e chi veglia così, governa bene la sua mente.
4a.) Chi si governa bene si lascia portare per Quello che tutto lo guida, e la nostra anima è portata così fino alla meta finale del perfezionamento mediante la purificazione che dà il dolore, e la forza che concede il combattimento incessante, tappa per tappa.
5a.) Egli ci fa trionfare nel seno stesso delle tentazioni, e per mezzo di esse. Sono le tentazioni il mezzo più vivo che ha Dio per guidarci, perché soccombiamo alle tentazioni quando ci guida lo spirito mondano, e ci allontaniamo quando è lo spirito divino quello che ci guida.
INDICE
Insegnamento 1: La morte di Cleopatra
Insegnamento 2: Ammonio Saccas ed il Neoplatonismo
Insegnamento 3: Il Misticismo Estatico del Mondo Antico
Insegnamento 4: Isidoro di Siviglia ed i Suoi Parenti
Insegnamento 5: Il Rinascimento Aristotelico di Avicenna e Averroè
Insegnamento 6: L'Aristotelismo di Maimonide
Insegnamento 7: Innocenzo III
Insegnamento 8: Ermanno di Salza e l'Ordine Teutonica
Insegnamento 9: La Poesia Mistica di Jacopone da Todi
Insegnamento 10: Giovanni Pico della Mirandola
Insegnamento 11: L'Umanista Tritemio
Insegnamento 12: Paracelso
Insegnamento 13: I Mistico di Port Royal
Insegnamento 14: Visioni di Emanuel di Swedenborg
Insegnamento 15: Saint Martin
Insegnamento 16: Il Filosofo Sconosciuto